Se è affidabile quel detto che recita “squadra vincente non si cambia”, come biasimare il “buon” John Lydon che, in occasione del secondo album di inediti dalla “restaurazione” del marchio PiL (A.D. 2009), ha deciso di restare in sella a uno dei migliori cavalli sul quale abbia mai puntato?
Non è un mistero che il Nostro sia riuscito a riunire alla sua corte alcuni dei musicisti britannici più brillanti e capaci del nostro tempo, mettendo rapidamente a tacere quei detrattori che lo accusavano di sfruttare il nome dei Public Image per intenti commerciali e nulla più. Certo, mai come ora resta indubbio che Mr. Lydon goda di un’attenzione particolare, complice un’invidiabile iperattività e un’efficacissima promozione, ma è altresì innegabile che Lu Edmonds (chitarra, saz, piano, cümbüs), Scott Firth (basso, tastiere, percussioni) e l’ottimo Bruce Smith (già The Pop Group, batteria, percussioni e programmazione) abbiano fortemente contribuito a collezionare “sold out” in giro per il mondo, uniti sotto il vessillo dei Public Image Limited.
Il primo capitolo della nuova fase (This Is PiL, 2012) aveva convinto critica e pubblico e aveva superato splendidamente le prove dal vivo, What the World Needs Now. . ., d’altro canto, non delude le aspettative, proseguendo in modo diverso il discorso già avviato in precedenza e confermando lo stato di grazia di una band che ha ancora tanto da dire. È palese sin dall’incipit di Double Trouble, che è poi anche il primo singolo estratto, quanto John Lydon sguazzi sicuro nell’alchimia del gruppo, celebrando la sua teatralità con meno remore e lasciandosi persino andare a nuove velleità rock ‘n’ roll, favorite dall’irresistibile giro di chitarra di Lu Edmonds, che tanto ricorda i Gang of Four del periodo storico.
L’alchimia, si sa, permette di sbizzarrirsi, ed è proprio quello che fanno i PiL di What the World Needs Now. . ., confezionando una sezione melodica, energica e sincopata e un’altra maggiormente sperimentale e rarefatta, più vicina all’universo psichedelico di This Is PiL.
Il discorso rock prosegue nelle ossessioni di Know Now (ancora à la Gang of Four nella proposta di Edmonds) per poi virare su territori più cupi nell’ode-tributo Bettie Page -trasformata argutamente da Lydon in una critica agli Stati Uniti- e nei lamenti vibranti di C’est La Vie. Coglie in contropiede la briosa The One, in cui riecheggiano i Violent Femmes più spensierati, prima di cadere vorticosamente nelle atmosfere dilatate di Big Blue Sky, un gioiello epico di otto minuti, forse l’apice compositivo dell’intero disco. È in un brano come questo, dove la precisione è tutto, che vengono a galla le enormi capacità dei musicisti: se Scott Firth e Bruce Smith rivestono il ruolo del metronomo, la chitarra di Edmonds interviene a singhiozzi misurati a fare da controcanto all’ispiratissimo Lydon (“I don’t feel human at all. . .”), per poi esplodere in estremo e commovente accordo sul refrain corale.
Convincono meno i rimbombi elettronici di Whole Life Time, il cui ritornello strizza troppo l’occhio a quello di Spice of Choice perché catturi l’ascoltatore fino in fondo.
Man mano che ci si avvicina alla conclusione l’album sfocia in territori sempre più bizzarri, come se i PiL abbiano deciso di sollevare definitivamente il piede dal freno verso gli ultimi fuochi, lasciandosi andare a deliri fin troppo istintivi: è il caso di Corporate, che pulsa greve come un macchinario industriale e che lascia l’ex “Rotten” libero di strepitare per cinque minuti buoni, o dell’esplicito commiato di Shoom, che catapulta i Public Image in zona dub, già bazzicata più volte e in tempi non sospetti durante la storica permanenza di Jah Wobble.
What the World Needs Now. . . è un’opera “100% PiL”, nella quale si riscontrano con sollievo le tipicità che hanno reso grande il gruppo nelle sue molteplici versioni. Allo stesso tempo si scorge prepotente la volontà di sperimentare con i mezzi prescelti, in barba ai gusti più ricercati, lasciando completamente libera da vincoli l’anima più genuina dei Public Image. Il risultato è una band spigliata, a suo agio nelle composizioni più abrasive quanto in quelle più “catchy”, più fedele di ieri allo spirito “freak” che l’ha sempre contraddistinta.
Una prova solida, per quanto spesso aliena e bizzarra. Forse proprio per questo più forte.