Esistono gruppi che siedono a tavolino e decidono convenientemente il proprio genere di riferimento ed esistono quelli che ad un genere preciso non riescono proprio a legarsi. Il caso degli Stella Diana è una storia d’amore che dura dal 1998 e che riguarda una fitta serie di realtà musicali i cui momenti più salienti risalgono agli anni ’80 e, in certi casi, a cavallo degli anni ’90. Sia chiaro: il gruppo partenopeo ha fatto di tutto per farci capire che lo “shoegaze” resti ora e sempre il campo da gioco preferito, ma le produzioni risultano un coacervo di esperienze molto più vasto, un calderone dove si fa riconoscibile una miriade di echi, complice la scelta di cantare in lingua madre che mischia sapientemente le carte e rifugge ogni categorizzazione di sorta.
Attraverso questo artificio compositivo, gli Stella Diana rilasciano il terzo album in studio: “41 61 93”, titolo che cita le coordinate di Gamma Velorum (detta anche “Regor”), la stella più brillante della costellazione delle Vele. Che il terzo disco sia importante lo percepisce anche la band, che s’impegna a confezionare un lavoro denso di simboli numerici (la somma delle sei cifre -“41 61 93”- risulta un multiplo di tre proprio come il numero nove: tanti sono i brani dell’album!) e di sottili citazioni. L’episodio, in ogni caso, è anche quello della svolta: l’ingresso di Roberto Amato in formazione (Geometric Vision) fa sì che le canzoni si tingano più che in passato di raffinati colori “new wave” e il cantato, questa volta non completamente annegato negli effetti – come di rito, lascia legittimo e più ampio spazio alle parole.
Suonano bene, gli Stella Diana, perché non devono più dimostrare di aver raggiunto la maturità quanto il coraggio di sviscerare la canzone “pop” e… giocarci.
“41 61 93” è un compendio saldo ed eterogeneo, che guarda al passato per “questioni di cuore”; a partire dal missaggio, volutamente retro’, passando per la voce di Dario Torre, consegnata al fruitore con tutte le naturali imperfezioni del caso, nella migliore tradizione “shoegaze”. L’oscurità e la spazialità delle chitarre, d’altro canto, si amalgamano bene al basso plastico di Giacomo Salzano e alle batterie incisive dal sapore distintamente “rock” di Davide Fusco, attraverso un continuo gioco emozionale di riverberi e delay. Se “Isabeau”, “22-2-87” e “Regor” alternano atmosfere più e meno rarefatte a trovate melodiche piuttosto immediate, brani come “Dale Cooper” (esplicitamente dedicato all’amatissimo personaggio interpretato da Kyle MacLachlan in “Twin Peaks”) e “Navarre” evidenziano maggiormente la forza compositiva degli Stella Diana, tralasciando il “matematico” in favore dell’intuizione più viscerale. È proprio “Navarre” il momento più alto di tutto il disco: una piccola odissea di sette minuti in cui tutti gli strumenti s’intrecciano alla perfezione, come se fossero naturalmente nati per alchimizzarsi in questo contesto, ipnotizzando l’ascoltatore e imprigionandolo in una gabbia inossidabile di sanissima malinconia (complice un sax assassino e irresistibile!).
Nelle nove canzoni di “41 61 93” si rincorrono costantemente le impegnative lezioni dei Chameleons e dei primi Diaframma, tra una strizzata d’occhio al surrealismo sonoro tipicamente “post-punk” e al triste e pungente “melò” delle liriche. Se, d’altro canto, il missaggio risulterà un po’ inviso agli amanti del nuovo e dell’asettico, basti pensare che canzoni come la bella e serrata “Edward Teach” (che omaggia tanto Cranes e Cocteau Twins quanto i My Bloody Valentine) e la dilatatissima “Motel Sagrera” sono la fedele restituzione del suono e dell’impatto “live” della band, ora e sempre vera e naturale dimensione degli Stella Diana.
Una buona prova in studio, dunque, per un gruppo di autentici fuoriclasse del palco, portatori sani di spontaneità come non se ne vedono più da anni. Una valida occasione per riscoprire una perla rara della nostra penisola.