“L’arte deve solamente superare se stessa”
(Carmelo Bene)
Nella storia della musica è capitato svariate volte che un album, all’inizio non compreso o addirittura bistrattato, fosse rivalutato col passare degli anni, ma pochissime volte è successo che il lavoro di un musicista fosse oggetto di una risemantizzazione così ingente e così urgente, com’è accaduto all’ultimo capitolo del Duca Bianco. Uscito l’otto Gennaio scorso, in occasione del suo sessantanovesimo compleanno, ★ (Blackstar) ha diviso a malapena critica e pubblico prima che il tempo si fermasse appena quattro giorni dopo, proprio in occasione della morte di David Bowie. Estemporanea e inaspettata per adepti e fedeli seguaci (i suoi problemi di cuore erano noti, ma che avesse il cancro non era trapelato in alcun modo), essa è sopraggiunta proprio nei giorni in cui si celebrava l’uscita del venticinquesimo album in studio, edulcorando gli ultimi passi conosciuti dell’Uomo che cadde sulla Terra di nuovi importanti significati. Ogni recensione scritta dopo l’undici Gennaio sarà, per quanto onesta e sincera, impregnata giocoforza di una consapevolezza rinnovata, fredda, spaventosa, ed è giusto così. Sì, perché David Bowie, uno dei più grandi e seminali artisti che questo mondo abbia mai avuto la fortuna di ospitare, ha compiuto un ultimo inarrivabile passo, sublimandosi e facendo di se stesso un capolavoro, quello definitivo.
Anticipato dal singolo omonimo, ★ (Blackstar) si è presentato al pubblico con toni cupi ed estremamente spirituali, complice un video al contempo surreale e funereo. L’apripista, del resto, è un rituale di dieci minuti che spiazza tutti con maestosa epicità, soprattutto alla luce dell’album suo predecessore, quel The Next Day così energico e variopinto da essere acclamato all’unanimità, sia da chi si sentiva orfano di Bowie da dieci anni sia da chi non era mai stato particolarmente attratto dal suo universo multiforme. Ancora una volta prodotto dal fedelissimo Tony Visconti, ★ (Blackstar) si configura come l’ennesimo contropiede, un coup de théâtre inedito per il musicista britannico, dove la ricerca lascia spazio a vere e proprie pulsioni che prendono le distanze dal rock quasi “classico” della penultima fatica.
Nell’episodio più oscuro della discografia del Duca Bianco, d’altro canto, non va ricercata una sperimentazione estrema, bensì un vortice implacabile di contaminazioni. Le ossessioni avant-jazz si alternano a sognanti echi del Bowie anni Ottanta, come nel caso di ‘Tis a Pity She Was a Whore che sballotta l’ascoltatore tra crescenti dissonanti e respiri di squisito synthpop vecchio stile. In Dollar Days – uno degli episodi più pregevoli dell’intero lavoro – si può addirittura riconoscere il Bowie melò di Quicksand. Insomma, se si presta particolare attenzione, in ogni singolo brano dell’album si può scovare una sfaccettatura dell’Alieno come lo conosciamo, ma la chiave di lettura risiede nei palpiti jazz e drum ‘n’ bass che attraversano tutti i quaranta minuti dell’album, sporcando ogni melodia e ogni accenno pop, piccolo o grande che sia. La sensazione è quella di essere trascinati in una corsa notturna metropolitana, un saliscendi sfrenato, tra episodi prima serrati e poi dilatati, costantemente permeati di ancestrale cupezza. Si fa esempio lampante di tale suggestione la nuova versione di Sue (Or in a Season of Crime), impreziosita dal sax di Donny McCaslin: una vera e propria spirale noir che opprime in una morsa straziante prima di lasciare il posto al lento e pesante incedere di Girl Loves Me, che imprigiona l’ascoltatore tra delay e batterie compulsive, al grido di “Where the fuck did Monday go?”.
Meritano un discorso a sé stante Lazarus e I Can’t Give Everything Away: la prima, alla luce della morte dell’autore, è diventata il manifesto del presagio, il testamento ultimo dell’uomo prima che dell’artista (“Look up here, I’m in heaven/ I’ve got scars that can’t be seen/ I’ve got drama, can’t be stolen/ Everybody knows me now”), mentre la seconda è senza dubbio alcuno il brano più autentico e diretto di ★ (Blackstar). Posta a sigillo del lavoro, quest’ultima canzone resta la più “inalterata” del disco: una struggente sinfonia elettronica dal sapore “newyorkese” di Gershwin e Sinatra, che forse si fa commiato anche più della marcia greve di Lazarus (“I know something is very wrong/ The pulse returns for prodigal sons/ The blackout’s hearts with flowered news/ With skull designs upon my shoes”).
★ (Blackstar) resterà nella storia per ovvie ragioni, ma la verità è che era destinato a lasciare il segno per motivi che esulano dalla morte del Thin White Duke. ★ (Blackstar) è la prova tangibile che Bowie risulterà sempre inafferrabile e, più di ogni altra cosa, inimitabile. È un disco che non ammette prigionieri: sovrasta con la sua efferatezza e rende vana ogni empatia. Se persistono momenti di estrema e genuina immediatezza, l’esclusività delle soluzioni ostacola qualsiasi tentativo di comprensione. ★ (Blackstar) è un monumento all’unicità di David Robert Jones, uno scrigno che più di tutti ne custodisce il segreto, dove “avanguardia” è solo un termine “utile” a delineare ciò che non è possibile spiegare con parole. Perché, si sa, David Bowie non ha mai rappresentato alcuna avanguardia musicale, né teatrale, né cinematografica. David Bowie era un outsider, il re degli outsider. Quello che fino all’ultimo istante ha riscritto le regole. Noi possiamo solo arrenderci alla sua enorme, disarmante personalità e augurare buon viaggio all’unico, vero, Uomo delle Stelle.