Rivisitazione del mito di Faust decisamente in anticipo rispetto alla versione firmata da Murnau, e desunta da un poema del crepuscolare Fausto Maria Martini (1886-1931).
L’intensa Lyda Borelli (Malombra, 1917 di Carmine Gallone) è una nobildonna oramai anziana che vive nel rimpianto della sua gioventù. Intuendo la sua debolezza, Mefistofele le propone un patto scellerato per restituirle la giovinezza perduta che, ovviamente, la contessa accetta. Con il rifiorire del suo corpo, si dedica a tutte quelle attività tipiche dei giovani; e, tra una festa e l’altra, si ritrova concupita da due fratelli: Tristano e Sergio. Quando quest’ultimo cercherà di ottenere il suo cuore, minacciando addirittura di uccidersi; la donna, spinta dal demonio, coinvolge Tristano – che si era rivolto a lei implorando di parlare al fratello – in un gioco triangolare, provocando così il tragico gesto dell’innamorato. Dopo questo drammatico episodio, la contessa si rinchiude nel suo castello, vittima dei sensi di colpa e dell’autocommiserazione; finché nuovamente Mefistofele non la informa della quotidiana visita notturna di un cavaliere che altri non è se non Tristano. In preda al delirio amoroso la donna apre le porte della sua tenuta al maniero allo sconosciuto, trovandoci invece lo stesso Mefistofele. La donna, non resistendo all’amore, è venuta meno al patto che con lui aveva siglato, e per questo pagherà con la vita.
Ben diretto dal dotato (e sfortunato) Oxilia (che cadrà vittima dello scoppio di una granata nella difesa del Monte Grappa), è un film ricco di atmosfera, nel quale diverse sono le immagini suggestive – grazie anche all’apporto felice del direttore della fotografia Giorgio Ricci (che avrebbe chiuso la sua carriera con I milioni di Saetta, 1923 di Ubaldo Pattei) – e i momenti riusciti. E se la prova della Borelli è, come già detto, ottima; non da meno lo sono quelle degli altri interpreti, sui quali domina Ugo Bazzini, viscidissimo nel suo ruolo di Mefistofele.
Il lirismo visivo della pellicola venne sottolineato dal celebre compositore Pietro Mascagni, che realizzò – per primo in Italia – un’ottima colonna sonora “ad hoc”, definendolo un lavoro “improbo, lungo e difficilissimo” (anche se poi ci avrebbe riprovato con La canzone del sole, 1934 di Max Neufeld).
Uno dei titoli di maggior interesse dell’epoca muta del cinema italiano.