Esiste una ragione non particolarmente arcana dietro il fatto che sia diventato così difficile parlare degli Editors, da qualche anno a questa parte, ed è inutile girarci intorno più di tanto: gli Editors sono una di quelle band destinate a doversi misurare con un passato ingombrante, vita natural durante.
Sono trascorsi nientemeno che dieci anni da quel fortunato The Back Room che convinse così ampiamente critica e pubblico, favorendo al gruppo di Stafford una rapidissima scalata nell’Olimpo alternative degli anni Duemila, e ancora si avvertono prepotenti gli echi di un lavoro così ben riuscito, celebrato spesso insieme al suo seguito più pop e barocco, An End Has a Start. Non è un segreto che questi due album siano responsabili di aver trasformato gli Editors in un gruppo di culto, ma è certo che siano altresì complici di aver reso così difficile accettare da parte di fruitori fedeli e occasionali un qualsivoglia cambiamento stilistico. Fu emblematico il caso di In This Light and on This Evening, dove Tom Smith decise di spiazzare tutti, misurandosi con un’elettronica di forte matrice anni Ottanta, e ancor più esemplare il ritorno a sonorità decisamente più pop di The Weight of Your Love, che tanto divise i giudizi e le opinioni dei fedelissimi.
In Dream è il quinto full-lenght della band e segue di due anni proprio The Weight of Your Love, un album che, in qualche modo, “normalizzava” gli Editors, portandoli a un livello di successo più globale che gli ha permesso di riempire arene e palazzetti e di scalare le classifiche di tutto il mondo. Con questo quinto episodio, d’altro canto, gli Editors sembrano voler allontanarsi dalle semplicità di ascolto, disilludendo ancora una volta le aspettative di chi si era abituato a un rock pomposo e – forse troppo – popolare.
Spiazzano e dividono ancora una volta, gli Editors, con questo In Dream dal sapore estremamente elettronico, tanto da dare l’impressione che sia una diretta evoluzione del terzo album e tanto da far sembrare la “sperimentazione” di ITLAOTE un “giochino” forse ancora un po’ immaturo. Sì, perché una cosa che non è mai stata messa in dubbio è che gli Editors sappiano suonare e che lo facciano con estrema classe e In Dream ne diventa una conferma sicuramente più convincente dei due lavori precedenti. Ci troviamo di fronte a un abbandono quasi completo delle chitarre, quasi a voler prendere definitivamente le distanze dal suono distintivo del fattore mancante Urbanowicz, e a un lavoro maniacale sui suoni di synth completamente autoprodotto. A parte il missaggio di Alan Moulder, il disco è tutta farina del sacco di Tom Smith e soci, che, è evidente, hanno raggiunto una dimestichezza con gli strumenti invidiabile. Ne è esempio lampante il primo singolo estratto, No Harm, un’invocazione struggente che si inerpica su sequencer e drum machine estremamente minimali, o l’inno di circa otto minuti che risponde al nome di Marching Orders, perfetta commistione tra gli Editors di ieri e di oggi.
Ancora più forte è l’influenza della new wave e del synth-pop anni Ottanta in lavori come Life Is a Fear e Our Love, che tanto pericolosamente ammicca a Smalltown Boy dei Bronski Beat – complice un falsetto che ricorda tantissimo Jimmy Sommerville – , così come in Forgiveness e The Law, che scomoda addirittura il paragone con i Depeche Mode di Construction Time Again.
Un lavoro nel complesso saldo e maturo, dove la resa strumentale è in primo piano quanto la resa vocale (risulta estremamente piacevole e convincente, Tom Smith, con un’ugola più malleabile degli esordi), e sicuramente ben riuscito… ma non basta. Non si scambino le critiche per puro spirito di contraddizione, ma la sensazione è che In Dream sia più un esercizio di stile che altro. L’album è chimica, alchimia, elettronica misuratissima, ma resta l’impressione che i brani scorrano via senza lasciare il segno. A disorientare, sicuramente, ci si mette un certo grado di apprezzabile eterogeneità, ma a mancare è un pizzico di passione in più che, probabilmente, avrebbe “riscaldato” un album di per sé freddo e distaccato nella sua razionale composizione. Anche la partecipazione della brillante Rachel Goswell degli Slowdive diventa un vezzo trascurabile che si perde tra le pieghe di un lento particolarmente oscuro e cadenzato. Sarà che il disco risulti espressamente derivativo, in certi punti, sarà che con atmosfere così rarefatte il gruppo perda un po’ della carica rock che l’ha sempre contraddistinto (perfino inITLAOTE), ma una cosa è certa: non si può dire che gli Editors si ripetano.
Paradossalmente, in un lavoro così sintetico, sono gli episodi meno plastici a spiccare: è il caso della bellissima Ocean of Night, che avvicina un album come In Dream alla svolta che gli R.E.M. intrapresero con Up: una sorta di ballata squisitamente melanconica che alterna l’individuale al corale, rendendo protagonista ogni singolo strumento chiamato in causa. Anche At All Cost, nella sua scheletrica, commovente struttura, scalfisce più dei ritornelli ossessivi di All the Kings e Salvation, ricordandoci quanto i silenzi siano importanti, in musica (e a questo proposito si consiglia di recuperare la deluxe edition dell’album, ricca di versioni alternative e molto più “asciutte” dei brani, dove sono riscontrabili anche i semi di una più efficace collaborazione con la Goswell).
Un’opera intrigante, In Dream, che probabilmente non supererà la dura prova del tempo, ma che di sicuro differenzia gli Editors da tantissime altre band che hanno preferito ripercorrere sentieri già battuti, scegliendo di vivere nella bambagia delle sicurezze, accontentando il proprio pubblico e senza mai rischiare di educarlo a differenti percorsi. Un piccolo spiraglio di luce, che permette di sperare più serenamente di TWOYL che Tom Smith e soci riescano finalmente a trovare la propria dimensione in un posto che si collochi idealmente tra la propria vena più sperimentale e quella più diretta, d’impatto, che fece la loro fortuna in tempi non sospetti.