Titolo tra i più incredibili della cinematografia italiana (ma anche mondiale), in cui il classico tema del testamento che porta all’omicidio a catena degli eredi convenuti in un castello dalle tetre atmosfere, viene allestito da un team di sceneggiatori (con nomi – in tutta evidenza fasulli – che sembrano propendere all’umorismo, non si sa quanto ironico o involontario) come una serie di quadretti scollacciati, giusto con l’intento di accumulare un cliché dopo l’altro.
C’è il topo – due erano probabilmente troppo cari per le esigue finanze della F.G.S. International Pictures – che scorrazza negli scantinati, il misterioso pianista che sveglia tutti nel cuore della notte con la sua personale Sonata “Al chiar di luna”; ci sono il laboratorio, la cripta di famiglia e i macabri scantinati. Curiosamente mancano i temporali e le ragnatele, ma il resto del corredo pseudo gotico è del tutto presente. Per assicurarsi che non manchi proprio nulla, gli sceneggiatori aggiungono anche una seduta spiritica – girata non si sa bene come: potrebbe essere delirio o autentico genio, in ogni caso una sequenza davvero unica, con delle ineffabili soggettive che non mancano di fare “effetto” (qualunque sia la valenza che si vuol dare a questo termine) – e un male orribile come la lebbra.
Il tutto viene tenuto insieme – e la trama (grazie anche a un montaggio decisamente incomprensibile) ha veramente la tendenza a sfaldarsi in mille direzioni ben distanti l’una dall’altra – da una collezione di dialoghi che non ha eguali nella storia del cinematografo, in cui il delirio e l’incongruenza regnano sovrane – tanto che si potrebbe arrivare a presupporre un vasto uso di alcolici durante la loro creazione – e sono fonte di frequenti spunti di perplessa ilarità.
In un cast di volti poco noti e dai modelli recitativi degni di una vetrina di abbigliamento, spiccano le presenze di Barbara Nelli (protagonista di un western altrettanto sconsiderato come Al di là dell’odio, 1972 di Alessandro Santini), Nando Angelini (Il boia Scarlatto. 1965 di Massimo Pupillo), e uno degli interpreti cult per eccellenza del panorama trash italiano, quel Gianni Dei memorabile protagonista di Patrick vive ancora, 1980 di Mario Landi.
Sul regista, che nasconde (argutamente) dietro il caratteristico pseudonimo anglosassone, un nome italiano che suona ancor più implausibile, regna un certo mistero, ma visti gli esiti di questo suo unico “opus” – in cui tutto va un po’ per gli affari suoi – difficilmente le ricerche sulla sua reale identità si faranno mai febbrili.
Da consigliarsi solo a maniaci del veramente brutto (e, in questo caso, il voto sale vorticosamente a un meritatissimo 8!), tutti gli altri faranno bene ad astenersi.
La settima tomba (1965, Finney Cliff/Garibaldi Serra Caracciolo)
