Seconda prova del regista di “Jade Soturi”, alle prese con un horror cupo e metafisico di ambientazione tardo-medievale. La trama: dopo una guerra di 25 anni tra Russia e Svezia (la prima guerra del Nord, 1558-1583), un gruppo di militari di entrambe le nazioni intraprende un viaggio verso i rispettivi confini, al fine di ripristinare cartograficamente la mappatura territoriale; nella spedizione vi sono due fratelli, Erik e Knut, che in seguito ad un incontro imprevisto con un contadino e sua figlia devono fare i conti con le rispettive, ataviche colpe; l’esplorazione di terre desolanti e desolate li conduce in un villaggio isolato dal resto del mondo allora conosciuto, dove tutto sembra degenerare irreversibilmente.
“Sauna” (2008) è la seconda prova alla regia del finnico Antti-Jussi Annila, che due anni prima esordì con l’azzardatissimo crossover di wuxia e mitologia Kalevala di “Jade Soturi”.
“Sauna” è un film suggestivo, ipnotico e angosciante che richiede una certa concentrazione visiva. Spesso e volentieri viene etichettato come horror esistenziale, definizione non del tutto erronea ma, forse, un poco depistante e semplicistica. Anzitutto l’aspetto orrorifico in senso stretto, salvo sporadiche sequenze ad effetto, è tutto suggerito e non mostrato: nessuna efferatezza fine a sè stessa tipica di taluni film di genere. Anzi, qui l’impressione è marcatamente psicologica e autoriale, specie nel ritmo, mai frenetico e “hollywoodiano”, tant’è che in più occasioni ricorda il Bergman de “L’ora del lupo” (1968) e l’ormai classico “Lasciami entrare” (2008) di Alfredson. Ma questo non vuol certo suggerire assenza di scenari inquietanti: tutto il film si dipana in una durata relativamente breve che dilata l’intensità di quanto si assorbe visivamente. Non vi sono sotterfugi narrativi triti e ritriti, omologazioni al genere e via discorrendo. Addirittura si fa’ strada un’insindacabile originalità, non solo nella trama ma, pure, nella dialettica della macchina da presa, che accentua la sensazione di isolamento e abbandono con movimenti cadenzati e trasversali (alla Tarkovskij per intenderci). Tutto è collocato e rimaneggiato alla perfezione per suscitare un disagio progressivo che non lascia vie di fuga. Dalla fotografia alla soundtrack, fino all’interpetazione magistrale dei due protagonisti, ogni dettaglio è stato maniacalmente sviluppato e incorniciato per rendere nel migliore dei modi l’assoluta assenza di redenzione. Salvezza che è tema portante di tutto il film, il cui viaggio, simbolicamente, vuole farsi portavoce di una discesa negli inferi di un complesso di colpa apparentemente insolubile, la cui implosione segna definitivamente un’inevitabile perdita di senno.
Il significante brilla di coerenza stilistica a sostegno di un significato profondo e mai banale. Per meglio dire, il contenuto è splendidamente racchiuso in una forma meta-cinematografica che sà il fatto suo, dove la macchina da presa, pur lenta e nordica, riesce ad intrappolarci in una gabbia rarefatta eppure inviolabile di razionalità verista e irrazionalità surrealista. Una sospensione costante che è poi la chiave di volta di “Sauna”, che a più riprese imbastisce suggerimenti interpretativi sfocianti in disattesi sincretismi di misticismo e nichilismo. Il peccato ancestrale, qui, non presenta connotati e sembianze cristiani; e men che meno vuole ottundersi a misericordia risolutoria. La colpa è frutto di azioni inopportune, di eccessi sregolati che per la loro ragion d’essere non son degni di perdono, se non barattandone quanto di più caro si possieda. Tale è la visone pessimistica di “Sauna” che risplende per assurdo nei chiaroscuri di un tòpos onnipresente, dove il buio regna sopra ogni cosa e non concede tregua, in perenne supplizio.
Vista la complessità della sua struttura e’ un film che richiede più visioni affinchè se ne possa cogliere l’intero spettro immaginifico e metafisico, tuttavia, quando finalmente ogni frammento viene recuperato e correttamente incesellato, la sensazione finale è quella di trovarsi innanzi ad un mosaico sì eccelso quanto disperato, che grida e al tempo stesso sussurra una persistente elegia funebre.
Se apprezzate il mood della cinematografia lynchiana, ci sono buone probabilità che vi piaccia anche “Sauna”. Consigliato a chi cerca un horror non convenzionale e a chi non teme la catabasi d’essai del cinema scandinavo.