Alla seconda prova su Sargent House, dopo le prime pubblicazioni sotto l’egida di Pendu Sound Recordings, Chelsea Wolfe torna in grande stile a deliziarci con le sue ballate dissonanti e malaticce, scagliando in ogni dove gli innumeri strali di una decadenza imprevedibile e parimenti magnifica.
Con la sua voce melanconica e al tempo stesso struggente, deliziosamente rimaneggiata da forti influenze iconiche quali Siouxsie ed Elizabeth Frazer, ci trascina nel suo abisso sepolcrale fin dalla prima traccia, ‘Feral love’, ove un battito accelerato incalza l’ascolto con una presa di posizione ansiogena e ipnotica che non molla la presa, se non per sconquassarci ancor più con un’esplosione ritmica abrasiva e di sicuro impatto sonoro. Apertura eccelsa di un viaggio musicale sorprendente, che prosegue con ‘We Hit A Wall’, rallentando la marcia funebre in funzione di ampie distorsioni chitarristiche, mai fuori posto o eccessive, e omaggiando a piene mani certe soluzioni psichedeliche e doom.
Senza tradire il suo contenuto ma alleggerendone la mole formale, ‘House of Metal’ ci sospinge in lieto naufragio con la sua nenia minimale, officiando tra le sue sparute note la gradita ospitalità di luttuosi violini, che ne definiscono il carattere plumbeo e corvino. Con ‘The Warden’ la pura melodia prende il sopravvento, spalleggiata da una chitarra acustica precisa e vibrante, riprendendo, solo in parte, il battito ipnagogico di ‘Feral Love’ ma sovvertendone l’asfissiante riverbero in qualcosa di ancor più sublime, tra l’angelico e il demoniaco, in perenne ambiguità dicotomica come una continua tensione fra gli opposti, coincidente suo malgrado in un forzoso equilibrio tra inferno e paradiso: quasi un’occulta ars regia di manipolare gli dei a proprio uso e consumo, soggiogandone il carattere furente e violandone l’immacolato candore.
Il brano successivo vanifica la speranza intravista e ci strattona con forza ancora più a fondo, dove la distruzione illumina d’immenso il mondo che brucia senza tregua: voce in lo-fi e pervasivi sperimentalismi cacofonici assurgono indomiti in questo cuore di tenebra musicale, nelle vesti compiaciute di impietosi carnefici che ci rimembrano la bellezza del dolore. Agonia che si trascina nella successiva ‘Sick’, un canto funebre che si stigmatizza in messa solenne, contaminandosi di aggraziata blasfemia. A seguire, un trittico (non dichiarato) composto da ‘Kings’, ‘Reins’ e ‘Ancestors, The Ancients’, dove un leitmotiv pomposo e marziale riaffiora pedissequamente come un’entità impalpabile ma onnipresente, fastidiosa e tuttavia inevitabile, foriera di oscuri presagi cui sia impossibile sfuggire. Preveggenze di una disfatta che si realizza con ‘They’ll Clap When You’re Gone’ e con gli 8 minuti e 32 secondi del lirismo onirico di ‘The Waves Have Come’. Chiude il quadro la desolante e desolata ‘Lone’, greve epitaffio di una perdita di fiato senza vincitori nè vinti.
“Pain Is Beauty” è un album da ascoltare (e ri-ascoltare) con attenta dedizione e conferma ampiamente l’evoluzione artistica di Chelsea Wolfe, qui ulteriormente riveduta e corretta, ove possibile, e tuttavia filologicamente fedele agli stilemi tracciati tre anni fa e che già oggidì la rendono riconoscibile e, proprio per questo, imprescindibile. Un must to have, come il resto della sua discografia.