La Pietra Lunare: un vero e proprio collettivo culturale che ha saputo andare oltre certi canovacci culturali di matrice Neo Folk, forse troppo abusati, realizzando un album molto personale e originale, dal sapore rustico e contadino, che ha al centro le antiche tradizioni del Sud Italia.
1) Ciao e benvenuti! Iniziamo dalle presentazioni!
Ciao Lunaria e grazie per lo spazio che gentilmente ci concedi. La Pietra Lunare nasce nel 2009 dalle ceneri del gruppo new wave Vestfalia’s Peace, attivo dal 1997, dove abbiamo militato per molti anni. Il nostro è un gruppo concettuale, nato da un’esigenza precisa: raccontare un mondo e una cultura antica attraverso una musica semplice e ricercata allo stesso tempo. Duccio, chitarra classica e acustica, si occupa della parte musicale, mentre Gianni, basso elettrico e voce, di quella testuale. Collaboriamo però entrambi all’unisono in fase concettuale e compositiva. Al gruppo si aggiungono molti collaboratori, tra i quali Eugenio, già chitarrista “malicorniano” con i Vestfalia’s Peace.
2) La Pietra Lunare: sembrerebbe un nome ispirato a qualche amuleto, invece lo avete tratto da un romanzo di Tommaso Landolfi che ha una storia un po’ bizzarra… La volete raccontare voi?
La storia è surreale e fantasiosa, tipica della poetica di Landolfi, talentuoso scrittore del novecento. Narra dell’amore viscerale e misterioso che unisce Giovancarlo, giovane uomo inesperto alla vita, e Gurù, bellissima fanciulla che nelle notti di luna si trasforma in capra e vaga per i monti sui suoi zoccoli leggeri. La vicenda si svolge negli anni ’30, in un piccolo villaggio del centro-sud. Quello che amiamo è l’assoluta abilità con cui Landolfi ha saputo rappresentare l’intrico di reale e soprannaturale che costituisce la base della cultura popolare delle nostre terre. Sullo sfondo di un mondo ruvido e concreto, fatto di terra e di fatica, nascono suggestioni assolutamente ultraterrene che rapiscono lo spirito e lo straniano dall’esperienza sensoriale: i tempi dilatati di un mondo pastorale, insufflato di misteri ancestrali, gravano sfumati e sinistri su un paesaggio immutabile.
L’iniziazione alla vita di Giovancarlo, sorta di rinascita interiore nello scoprire la realtà misteriosa che si cela dietro l’apparente tranquillità di una provincia noiosa e monotona, è forse la chiave di volta che ci ha spinto a scegliere questo nome.
3) Se, parlando con un ascoltatore straniero, definissi il vostro sound “melanchonic south italian typical folk”… che ne pensereste? Pensate che possa rappresentarvi? Vedo che l’etichetta “Neo Folk” non vi entusiasma molto… forse per una certa associazione mentale, che scatta all’istante, verso certe realtà teutoniche…? comunque, per l’uso che fate dell’improvvisazione, potreste in un certo senso essere etichettati come “Jazz rurale”.
Crediamo che il modo migliore per assimilare una cultura, sia crescervi dall’interno. Il neofolk è stato un movimento molto interessante, ma legato ad ambiti che sinceramente sentiamo lontani dalle nostre radici: non ci interessa parlare di rune, né idealizzare un passato mitico, ma raccontare la vita cruda e dura così come la vivevano persone molto più vicine a noi.
La definizione di jazz rurale è interessante e forse, in parte, azzeccata. Era stimolante l’idea di ritrovare un’autenticità più rurale che urbana, ricercando materiale tanto nei racconti dei nostri avi e nella letteratura, quanto nelle nostre passioni musicali. Abbiamo cercato di rendere al meglio le nostre influenze: dal folk tradizionale all’acid-folk degli anni settanta, dal progressive al cantautorato colto, dalla classica alla new wave. In particolare, apprezziamo molto la musica francese e le grandi voci come Charles Aznavour o Michel Polnareff, di cui portiamo anche una cover nel disco. Insomma, pur essendo usciti per un’etichetta neofolk, ci siamo volutamente slegati dal genere inteso in modo classico.
4) Parlate del vostro intento come “Il nostro disco è dedicato ai misteri di quell’Italia e racconta di come, negli anni a cavallo tra le due guerre in alcune piccole realtà nazionali si fosse ancora particolarmente legati alla terra e si credesse che i riti magici e gli amuleti potessero avere una qualche forma di volontà sulla vita quotidiana.”
è interessante l’uso che avete fatto dei sample: sentiamo voci di burbere contadine contrapposte alle angeliche vocals che si librano in alto. Sembra quasi di vederle, queste signore rubiconde, intente a lavorare nei campi, chinate, con la schiena dolente e imperlata di sudore, e poi, per strada, a complottare le une contro le altre… In Letteratura un esempio sublime di “letteratura sudista” lo abbiamo avuto in Verga, quello che ha firmato novelle-capolavoro come “La Roba”, con tutto il suo macrocosmo di latifondo, baroni, preti, contadini…
Ricordo di aver letto alcune leggende legate al folklore contadino del Sud, e in particolar modo, della Sicilia, legato a certe forme di magia/superstizione popolare-cristiana (riferimenti a Gesù Cristo poco “in linea col magistero della Chiesa”, alla Madonna vista come Dea del grano, e poi un “pantheon” di “Dei” minori da pregare e scongiurare: San Michele, Santa Lucia e così via)
è stato proprio sul finire dell’800, inizi ‘900 che l’Italia contadina ha cominciato ad interessare agli studiosi, che ne hanno in qualche modo “eternizzato” le tradizioni: Leland, Gardner, Frazer… Sono autori che avete consultato o che amate leggere?
È stato Verga il nostro punto di partenza artistico. Il brano “Pane Nero” è ispirato all’omonima novella del suo capolavoro “Novelle Rusticane” del 1883. Ci piace l’idea del realismo, del verismo musicale, un po’ come lo intendeva Bela Bartok agli inizi del secolo. Bartok gettò le basi per l’etnomusicologia attraverso un integralismo che sfociava in opere ricche di suggestioni contadine e rurali sulla sua terra. Queste partivano dalla trascrizione puntuale di ogni forma di folk all’esecuzione metodica di tali spartiti, al fine di conservare l’autenticità delle proprie tradizioni. Certo non abbiamo avuto questo rigore metodologico, forse troppo difficile da seguire, ma abbiamo comunque ricercato un’autenticità basandoci sul nostro vissuto.
Da un punto di vista puramente sociologico, gli studi delle tradizioni popolari regionali, effettuato a metà del secolo scorso dal professor Ernesto de Martino sono stati alla base del nostro lavoro: nel suo saggio “Sud e Magia” abbiamo ritrovato tanti spunti interessanti per la creazione dei testi.
5) Leggo che all’album avete dedicato cinque anni di lavoro e hanno collaborato artisti come Egida Aurea, Lupi Gladius, ZSP, Antiqua Luna. Come è stato possibile gestire tutto questo lavoro? Potete anche presentare il contributo dato all’album, di ciascun interprete?
Purtroppo non viviamo nello stesso luogo da anni e non abbiamo alcuna possibilità di provare e registrare insieme, come fanno molti gruppi. Abbiamo costruito il disco con pazienza, investendo gran parte del tempo libero a disposizione. All’album hanno collaborato amici che si sono appassionati al progetto e ci hanno aiutato nell’impresa: il già citato Eugenio Auciello con la sua particolare chitarra elettrica “malicorniana”; Fabio Cerrato al sassofono contralto e tenore; le cantanti Emma Tesone, Gilda La Ragione e Giulia Maselli; il violinista Matteo Campopiano e suo fratello Andrea; il violoncellista Maurizio Demichelis; la flautista Enrica La Ragione; il percussionista Francesco Lupacchino. Artisti del calibro di Diego Banchero del Segno Del Comando, che ha suonato il basso in un brano e curato pazientemente il master dell’album; Davide Bruzzi degli Zena Soundscape Project che ha suonato alcune chitarre elettriche; Antonio Losenno dei Lupi Gladius alle percussioni e alle ritmiche; Alessandro Cucurnia degli Antiqua Lunae che ha suonato bouzouki e arpa celtica. Non da ultimo Renato “Mercy” Carpaneto degli IANVA, che da anni ci sostiene con consigli preziosi sulla direzione musicale da intraprendere.
6) Potete citarci anche il resto dei contributi letterari? Vedo che avete menzionato anche Ignazio Silone. Ricordo di aver letto un estratto preso da “Fontamara”, che se non ricordo male, era incentrato su un discorso di proprietà della terra e dell’acqua, e dei “giochi di potere” per accappararsele… Forse l’unica autrice “rurale” che abbiamo avuto è Grazia Deledda… Ne cito un estratto da “Canne al vento” (1913) “Nei tempi di carestia, cioè nelle settimane che precedono la raccolta dell’orzo, e la gente, terminata la provvista del grano, ricorre all’usura, la vecchia Pottoi andava a pescare sanguisughe. Il suo posto favorito era una insenatura del fiume sotto la Collina dei Colombi presso il poderetto delle dame Pintor. Stava là ore ed ore immobile, seduta all’ombra di un ontano, con le gambe nude nell’acqua trasparente verdognola venata d’oro;”
Si abbina molto bene al vostro concept, non trovate?
La commistione tra lirismo e ruvidità realistica ci caratterizza, in effetti, sia sul piano dei contenuti che su quello lessicale, proprio come avviene nei romanzi della Deledda.
Il vivere lontani dalla realtà contadina che descriviamo ci aiuta a ritrovarne tutta l’eco lirica. Abbiamo colto questo aspetto grazie ad una bellissima lettera di Verga a Luigi Capuana, in cui lo scrittore spiega che solo quando si trova lontano dalla Sicilia, nella Milano industrializzata o a Firenze, riesce a descrivere esattamente le realtà rurali conosciute nel modo che più lo soddisfa, solo grazie ad un senso di “malinconia soffocante” dovuta alla distanza riesce infatti a coglierne gli accenti più lirici, suggestivi ed evocativi. Ci ritroviamo nelle sue parole.
Riguardo ad Ignazio Silone, riteniamo abbia scritto delle indelebili pagine di storia contadina. Il titolo della strumentale “Che fare?”, così come il motivetto che si può sentire all’inizio, sono tratte dal suo “Fontamara”, un libro che colpisce per la quantità di insegnamenti morali che offre.
Tra gli altri autori che ci hanno ispirato citiamo Francesco Jovine e le sue “Terre del Sacramento”, Rocco Scotellaro, Carlo Levi.
7) Un esempio di “spaccato popolare”, al cinema, l’hanno offerto Lucio Fulci, con il suo “Non si sevizia un paperino”… Ricordo ancora il personaggio della “strega” del villaggio…amata, temuta, disprezzata, e in un certo senso, ecco ricollegarci al personaggio verghiano della Lupa; se invece vogliamo citare un esempio di “horror rurale della pianura padana”, come dimenticare “La Casa dalle finestre che ridono”, con quel casolare abbandonato su un’altura… che in altri tempi avrebbe ospitato i sabba… è noto, agli appassionati di storia della Stregoneria, quanto il Paganesimo antico (e i relativi riti di fecondità) siano sopravvissuti nelle “classi basse”, soprattutto tra le povere donne che spesso avevano come propria e unica fonte di reddito “il fare malie, l’usare le erbe”… Un’altro film, questa volta drammatico, invece è “L’albero degli zoccoli”. Siete stati ispirati, per caso, anche da qualche film in particolare?
Siamo stati influenzati in modo diverso dal cinema: in primo luogo attraverso alcuni sceneggiati Rai degli anni ’70. Principalmente “Fontamara” di Carlo Lizzani, ma anche in misura diversa “Ligabue” e “Le avventure di Pinocchio”. È interessante notare come quegli sceneggiati avessero un che di vero, reale, tangibile. In Fontamara si respira l’aria dei poveri contadini della Marsica, non c’è alcun filtro alla narrazione, il realismo è assoluto, tanto che sarebbe improponibile oggi nel panorama televisivo scadente ed edulcorato che si è venuto a creare. Trasversalmente siamo stati influenzati dai film che tu hai citato: Pupi Avati in particolare è un regista vicino al nostro modo d’intendere l’arte e la vita, i suoi film racchiudono uno sguardo sincero verso la storia italiana e una semplicità d’altri tempi che sentiamo di condividere. Un film che abbiamo scoperto tempo dopo è stato “Il Demonio”, (1963) di Brunello Rondi, che spesso proiettiamo durante i nostri live: ci siamo accorti che questo film racchiude la sintesi di molte tematiche “esoterico-sacrali” che abbiamo trattato in brani come “Il Male dell’Arco” o “Il Passaggio Arboreo”.
8) La storia d’Italia, della formazione nazionale, è nota a tutti. Ricordo che all’epoca mi ero interessata alla storia del brigantaggio e delle rivolte contadine quasi subito soffocate nel sangue.
Il fenomeno de brigantaggio è piuttosto controverso, nonostante sia stato comune in quasi tutta Italia ed in special modo nel meridione borbonico. Durante la costituzione del Regno d’Italia, molti briganti si unirono alle rivolte proletarie contro i militari del neo costituito Regno d’Italia. E’ affascinante il modo in cui venivano considerati dalla popolazione: spesso erano acclamati come eroi che combattevano al fianco del popolo, era nata una vera e propria mitologia del brigantaggio che è durata fino a tempi piuttosto recenti.
Nel nostro brano intitolato “Gurù”, vi è la descrizione di una notte trascorsa nella grotta di rudi briganti nascosti tra i monti dell’Appennino.
9) è costante il riferimento alla capra, che appare, oltre che sulla scheda biografica e nei testi, anche sulla copertina. Ma è una capra “smaterializzata” in colori freddi (azzurri, grigi, bianco). Come mai questa scelta che stride con le atmosfere calde e bucoliche all’interno del cd? Per curiosità, c’è l’intento da parte vostra di rifarvi anche a Pan?
Di recente avevo letto un racconto molto bello, “Mezza casa” di Marco Vichi. Era proprio ambientato nelle campagne. Si parlava di una maledizione, scagliata contro un nobile che maltrattava i contadini. Ad un certo punto qualcuno aveva inchiodato al suo portone di casa, per tre volte, una testa di capra mozzata. E da quel giorno il tale era impazzito. Vi risulta che possa essere un rito effettivamente praticato, in passato?
Diversamente da quello che si potrebbe supporre, la capra in copertina non ha esclusivamente una valenza esoterica, ma va presa per quello che è: una capra. Volevamo svestirla di significati simbolici e richiamare la purezza dell’animale. La capra era un animale che assicurava il sostentamento, e veniva quindi allevato, munto, pascolato, macellato e viveva a stretto contatto con ogni aspetto della vita quotidiana delle persone. Al contempo, però, il suo sguardo era colmo di presenze ultraterrene e misteriose.
È proprio il fondersi della natura umana e bestiale, reale e soprannaturale che si riassume nell’immagine della capra in copertina, volutamente sbiadita, come se vagasse da qualche parte nella memoria. Se ascolti il brano “Città Nascosta” noterai che la capra e il capraio, i due esseri del mondo antico smarriti per le strade di un immenso centro urbano, sono in realtà solo immagini sbiadite, come ben dici, smaterializzate, nella nostra mente.
10) Pensate di realizzare altri lavori, sempre dedicati al folklore contadino, ma questa volta di altre regioni? Ricordo di aver sentito, ancora fino a 16 anni anni fa, che gli anziani della mia zona si ricordavano ancora delle streghe che operavano nelle cascine… Non ricordo il termine esatto, ma mi pare fosse “scalfirie”, e una donna “scalfiria”, dal loro punto di vista, era una donna da isolare.
Sarebbe bello poter realizzare un concept legato al folklore contadino di tutta la penisola, ricca di tradizioni e credenze popolari. Sono tutte molto interessanti e celano racconti su un’Italia che non esiste più. Crediamo però che un’operazione del genere sia impossibile. Non si può cantare ciò che non si conosce, e non si può conoscere veramente una cultura senza aver condiviso con essa una parte della propria vita. Attualmente il nostro sguardo si sta spostando verso tematiche e momenti storici relativamente più vicini, e non è da escludere che li tratteremo in un prossimo lavoro.
11) Una curiosità: che ne pensate di un gruppo come gli Inchiuvatu, che, a quanto ne so, sono stati tra i primissimi a parlare del folklore siciliano e nell’usare il dialetto in un contesto musicale che a prima vista sarebbe sembrato inconciliabile con il loro intento? Eppure, a pensarci bene, non era così strano usare il dialetto locale per un genere come il Black Metal che era nato in un contesto con “radici nordiche” esibite con orgoglio, con tanto di cantato in norvegese. Ne conseguiva, che era perfettamente logico adoperare il proprio dialetto, se si decideva di suonare quel genere di musica.
Ad ogni modo, a parte questo, come conciliare la frattura tra “antiche radici/cultura contadina” e “cultura moderna, ultratecnologica”? Spesso questo problema riaffiora nel discorso delle donne islamiche che sono orgogliose del loro velo proprio perché simbolo di tradizione, di radici.
Pensiamo che sia assolutamente coerente utilizzare il linguaggio dialettale all’interno dei testi, il suono del parlato è infatti un distillato della cultura locale. Siamo tuttavia meno entusiasti nell’ascoltare testi dialettali che si appoggiano su stili musicali nati in contesti lontani ed alieni. Non vogliamo con questo appoggiare una sterile riproposizione degli stilemi musicali folkloristici, come spesso viene fatto in maniera letterale e semplicistica, ci piacerebbe tuttavia che la musica, come le parole, fosse specchio della cultura che l’ha generata. Se però pensiamo alle radici normanne del popolo siciliano possiamo vedere che l’uso del Black Metal nordico da parte degli Inchiuvatu non è forse così casuale.
La frattura di cui ci parli è effettivamente stridente. Le nostre condizioni di vita sono infinitamente migliorate dai tempi che abbiamo descritto nelle nostre canzoni. Tuttavia non siamo più capaci di vedere il mondo con gli occhi dell’estasi e della meraviglia dei nostri nonni, ma ci lasciamo sopraffare da uno sguardo meccanicistico, senza soffermarci a riflettere veramente su ciò che ci circonda.
12) Concludete a vostro piacimento la nostra chiacchierata!
Grazie per il tempo che hai dedicato a noi e all’ascolto del nostro disco e grazie ai lettori di Darkitalia. Chi volesse approfondire con noi le tematiche di cui abbiamo parlato, conoscere la nostra musica, o semplicemente scambiare qualche idea, può contattarci sulla nostra pagina facebook ufficiale: htttp://www.facebook.com/lapietralunare.