Affrontare il nuovo album di Gianluca Lo Presti (A.K.A. Nevica Su Quattropuntozero) vuol dire caricarsi di aspettative.
Da anni factotum della Disco Dada, Gianluca possiede il merito di aver prodotto alcune delle realtà più interessanti del sottosuolo musicale italiano e, nel caso specifico di Tying Tiffany, di aver spinto quel “sottosuolo” a confrontarsi a livello mondiale. Non solo, la sua collaborazione con Blaine Reininger dei Tuxedomoon lo fa entrare a pieno diritto nella schiera dei pionieri e degli sperimentatori del suono più importanti dell’ultimo decennio. Come se non bastasse a tenere alta la tensione dell’ascolto di questo nuovo disco, c’è da aggiungere che “Lineare”, il precedente lavoro in studio datato 2010, sia risultato ai più ostico al punto da non essere particolarmente acclamato dalla critica che ha dispensato più paragoni che opinioni. Ostico, forse, perché molto più concettuale che istintivo. Non necessariamente un difetto.
Al contrario “I diari miserabili di Samuel Geremia Hoogan”, afferma l’autore, “è nato in mezzo al caos più totale.” Gli si crede subito, non appena “Promiscuità” fa il suo ingresso fragoroso.
E’ da questo incipit, che ha tutte le potenzialità del “singolo di presentazione”, che capisco quanto oscuro, melanconico e sofferto sarà questo album. I suoni distorti, fumosi, perfettamente calibrati da un basso che incede maestoso e il testo ermetico, così personale, suggellano senz’ombra di dubbio lo stato di grazia di Gianluca Lo Presti. Del resto, si sa, le migliori prove discografiche della Storia sono nate da contesti del tutto esterni all’equilibrio del quotidiano. Se si era alla ricerca di qualcosa di più spontaneo, “I diari di Samuel Geremia Hoogan”, pur siglando una sorta di “concept”, è un disco che genera alchimie fuggendo ogni matematica di sorta, ogni calcolo. Una “necessità”, un bisogno di beniana memoria.
Nonostante le venature scarne siano preponderanti (prendendo in prestito, in maniera certamente più ovattata, alcune peculiarità del progetto parallelo “Nevica Noise”), il linguaggio non volta le spalle agli esordi e al percorso di scrittura italiano meno scontato. “Gli avanzi”, forse il brano più diretto de “I diari”, è la summa perfetta di quest’intento autoriale: lento come un valzer dreampop, strizza l’occhio al più nostalgico Battiato dipingendo i ricordi (veri, finti… che importa?) per mezzo del recital-cantando fino a quando l’elettronica non si palesa danzereccia. Molte le collaborazioni che, seguendo scrupolosamente le linee autobiografiche dell’album, riprendono vecchie e nuove amicizie più che “happening” di convenienza. Bruno Dorella (Bachi da pietra, Ronin, adesso impegnato nella promozione di “Abisso”, prova magistrale degli OvO) firma batteria e percussioni de “L’amputazione”, canzone dalla deliziosa matrice pop abortita appena dai suoni acidi caratteristici, oltre che delle più cadenzate “Salmo 11” e “La tossicità della felicità.” Giuseppe Lo Bue (Caron Dimonio) presta la sua chitarra agli episodi, a mio parere, più intensi dell’album (“Promiscuità”, “Borderline”, l’acclamata “Incolume”) mentre Umberto Palazzo (storico leader dei Santo Niente), Francesco Cellini (primo violoncellista degli Afterhours) e Lorenzo Montanà (l’altra metà della Disco Dada) intervengono con estremo rispetto all’opera di Lo Presti senza mai invadere o demolire i propositi di questo album ambizioso.
Ambizioso suo malgrado, in ogni caso, perché la disperazione, lo strazio di “Samuel Geremia Hoogan”, sono esplicitati a tal punto da annegare e far annegare nella consapevolezza. La consapevolezza adulta, matura, screziata di imperfezioni tipica del disilluso uomo moderno. Un percorso tortuoso in cui si apre petto e cuore al pubblico, dinanzi al quale Gianluca Lo Presti sembra denudarsi ed esporre tutte le infezioni del suo animo, con un’autenticità così genuina che non può risultare invisa. “Ci vuole coraggio per poter fallire” canta ne “La vita che passa” e non si fatica a capire perché si sia scelto di donare al disco la connotazione di “diario”. “La vita che passa non si fa aspettare/Va mangiata calda senza troppe paure/Correre il rischio anche di vomitare/Ma liberati dal male che ti fai.” Un’espiazione, forse, ma non una mera giustificazione del proprio essere umani e, di certo, non un piangersi addosso.
Tra chitarre e synth che viaggiano su binari altamente complementari, il viaggio di “Samuel Geremia Hoogan” prosegue elevando il proprio alter ego/cretore verso la consacrazione definitiva della propria carriera artistica. Sulla qualità dei suoni non si nutrivano dubbi, sulla competenza del mixaggio non si discuteva a priori: la vera sorpresa è arrivata con la composizione, finalmente “diversa” ed inquietante senza remore (“Narici”). Se dovessi delineare un genere di riferimento per questo lavoro non ci riuscirei, se dovessi elencare le contaminazioni la mia lista sarebbe infinita.
“Nevica su Quattropuntozero”, di questo, sarà contento.
Da qualche altra parte “Samuel Geremia Hoogan” può finalmente ridere soddisfatto.