Durante una gita scolastica, due pullman pieni zeppi di studentesse vengono letteralmente scoperchiati da una presenza invisibile che, come se non bastasse, provoca la morte di tutte le ragazze presenti. Unica superstite dell’ incidente è Mitsuko, una fanciulla dai capelli rossi che, fortunatamente, riuscirà a scappare a gambe levate da questa misteriosa forza oscura sprigionata dal vento. Dopo un lungo camminare, la studentessa raggiunge finalmente il liceo di provenienza al fine di cercare aiuto ma, con suo sommo stupore, scopre una realtà sconvolgente : le sue amiche sono tutte vive e vegete!
Incubo? Immaginazione? Realtà parallela? Per la povera Mitsuko non rimarrà altro da fare che cercare una spiegazione plausibile.
Tra i registi più anticonformisti dell’odierno panorama nipponico, il discusso Sion Sono è sicuramente uno dei più rappresentativi. Con il suo stile coraggioso, pittorico e senza compromessi, l’autore di cui sopra ha sempre cercato di analizzare la moderna società giapponese con fare critico e cinico, descrivendone gli spaccati familiari più decadenti (i feroci “Strange circus” e “Cold fish”, veri pugni allo stomaco ben assestati), il maschilismo con conseguente repressione sessuale ( il magnetico “Guilty of romance”) e la ricerca del sesso adolescenziale ( il mastodontico “Love exposure”, un lungometraggio di ben quattro ore strabordanti di fantasia).
In una filmografia di vibrante anarchia stilistica, dove i cosiddetti generi filmici vengono più volte rimescolati e plasmati a piacimento, “Tag” conferma ancora una volta la pazzia autoriale di un artista che – con sincero compiacimento – prova immenso piacere in ogni singola cosa che fa.
Trainata da Reina Triendl – giovane attrice austro/giapponese – la pellicola esplode in tutta la follia già dopo tre minuti scarsi, presentando un’incredibile sarabanda fatta di sangue, mutandine in bella vista, corpi tagliati in due, foglie che, grazie all’azione del vento, si trasformano quasi in affilati shuriken e, naturalmente, una massiccia dose di ironia.
Avvalendosi a più riprese di veloci carrellate dall’alto e vorticosi movimenti di camera, il mai domo cineasta imprime fin dai primi istanti un ritmo indiavolato e un’avvolgente sensazione di follia che, con estrema imprevedibilità, uscirà allo scoperto in più di un’occasione. Sebbene i toni siano dichiaratamente deliranti, l’opera si fa in realtà portavoce di domande esistenziali sulle quali lo spettatore sarà irrimediabilmente costretto a riflettere; l’imprevedibilità della vita e conseguenti molteplicità di scelta, difatti, paiono essere i temi principali di una storia nella quale i personaggi cercano di liberarsi dalle catene di una società che li vorrebbe schiavi di una monotona esistenza.
La libertà dai severi vincoli scolastici, dagli amori imposti e dagli adulti intransigenti, compongono visivamente un quadro dove il geniale cineasta, oltre a divertirsi con trovate trash di grande intrattenimento, imprime attimi di lirismo poetico non indifferenti, con cromatismi e composizioni visive che ne certificano l’immenso talento (nonostante la CGI non sia affatto delle migliori).
Tra splatter, dimensioni che si incastrano tra di loro, ermetismo e una malinconia tipicamente orientale, ” Tag” è un divertente horror/fantasy al femminile (tenendo conto anche di come vengono descritti i pochissimi maschietti presenti nel film), dove la donna cerca di essere padrona del proprio destino, liberandosi quindi da ogni tipo di vincolo e costrizione dettata non solo dalla società, ma anche dal maschio stesso.