Lontano anni luce dai suoi precedenti titoli, il musicista e cineasta Rob Zombie si trasferisce, attraverso un immaginario europeizzante quanto non mai – nella dimensione della suggestione, abbandonando quella dell’eccesso grandguignolesco, e dell’onirismo lasciandosi alle spalle quella del realismo – anche eccessivo – di stampo “splatter punk” (e, in particolare, si veda in questo senso il ribaltamento dimensionale effettuato nel “remake” di Halloween). Presa la moglie – che si rivela quanto mai abile protagonista – la scaraventa in un percorso ordalico che – in un’epica e iconica sequenza conclusiva – la trasforma in una Madonna degli Inferi di grande fascino e impatto, attraverso una vicenda di stregoneria e possessione sviluppata in una discesa agli inferi barcollante e sempre più sfilacciata – un po’ sulla traccia della progressione narrativa di Inferno, 1980 di Dario Argento – contornandola con malefiche streghe dall’aspetto di gentildonne sulla via della terza età – un po’ come in Suspiria, 1977, altro capolavoro argentiano. Quando alla locale DJ Sheri Moon (che è apparsa in tutti i titoli girati dal marito) viene recapitato un misterioso disco, ha inizio per lei un vero e proprio viaggio iniziatico, un lungo percorso fatto di dolori e disturbi, di visioni e incubi, di apparizioni fantomatiche e misteriose presenze – che ricordano non poco a livello atmosferico tanto Rosemary’s Baby, 1968, quanto Le locataire / L’inquilino del terzo piano, 1976 di Roman Polanski – il tutto sull’onda della musica diabolicamente mesmerica contenuta nel vinile. La sua vita decade progressivamente, mentre, attorno a lei, la cittadina di Salem si trasforma in un borgo distante, apparentemente inanimato – come certi suggestivi quadri urbani di Herzog o del Zulawski di Possession, 1981, titolo al quale si accomuna perché anche Sheri Moon è in attesa del mostruoso erede del “Signore di Salem” – dove la protagonista deambula sempre più estenuata ed estraniata, consumando crack o il thé (magico?) del Gran Maestro Judy Geeson (davvero ottima, e già impegnata in un titolo stregonesco a inizio carriera come Una vela para el diablo, 1973 di Eugenio Martín), la quale porta avanti con le adepte della sua congrega il secolare piano di vendetta contro la ragazza, discendente del cacciatore di streghe Hawthorne. In un finale di crescente delirio (1) – e instabilità narrativa – un po’ meno bene s’inseriscono le figure dello storico indagatore di misteri – un discreto Bruce Davison (X-Men, 2000 di Bryan Singer), vittima più che altro dell’estraneità del suo personaggio – che mal si integra nel tono volutamente metafisico e surreale con cui Zombie tratta una vicenda prettamente soprannaturale (2); e quelle dei colleghi radiofonici – entrambi battezzati Herman – Jeff Daniel Phillips (apparso, tra le sue tante piccole presenze, anche in Zodiac, 2006 di David Fincher) e Ken Foree (Dawn of the Dead / Zombi, 1978 di George Romero) – quest’ultima particolarmente ridimensionata, a quanto pare, rispetto al “concept” originale del regista/sceneggiatore – appaiono, almeno, così come vengono proposte, invece alla stregua d’inutili integrazioni, che tendono a deconcentrare lo spettatore dalla progressione (ma sarebbe più giusto dire regressione) che investe la protagonista. Rob Zombie, come già aveva fatto nel suo esordio – House of 1’000 Corpses / La casa dei mille corpi, 2003) – prendendo il cinema dei “grind-house” e riproponendolo attraverso il filtro del suo occhio visionario e malsano, rielabora un certo cinema dell’orrore sviluppatosi soprattutto in Europa a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, nel quale visionarietà e surrealismo (3) si amalgamavano a inquietudine e pessimismo; e, in fondo, l’interesse del regista sembra proprio vertere sull’inquietudine piuttosto che l’orrore, sul sospetto piuttosto che uno spavento materiale. Considerando questo obbiettivo, il risultato appare pienamente centrato, grazie anche a una conclusione post-finale che si affida all’efficace banalità di un “voice-over” per assicurarci della realtà dei fatti cui si è assistito, e a una semplice panoramica di Salem capace di contenere la stessa atmosfera dense e le medesime suggestioni oscure di un racconto lovecraftiano (in particolare The Shadow Over Innsmouth / La maschera di Innsmouth), a sottolinearne la “funesta sorte”). Gran merito di questo risultato è da ascrivere in particolare a tre componenti tecniche come l’elegante e funzionale fotografia di Brandon Trost (disperso in una pletora di micro produzioni di genere o meno – compresi gli ultimi due capitoli della trilogia Pulse – prima di incontrare Rob Zombie sul set di Halloween II, 2009), le scenografie citazionistiche di Jennifer Spence (gli ultimi 3 capitoli della serie Paranormal Activity) e le ottime composizioni originali – di John 5 (a lungo collaboratore di Marilyn Manson) e Griffin Boice (produttore e compositore che ha collaborato con Black Eyed Peas e Hollywood Undead), che Zombie abbina sapientemente a un colto ripescaggio musicale che va da Mozart e Bach ai Velvet Undergournd, passando per i Rush. Indubbiamente contro corrente e ostico per l’odierno pubblico medio delle sale, è un raro esempio – se non unico – di film europeo realizzato con maestranze e capitali (questi ultimi quasi) interamente americani; oltre che risultare in uno dei più affascinanti e interessanti esperimenti cinematografici realizzati all’interno di un genere troppo spesso ancorato ai suoi stessi “topoi”.
(1) = Nel quale si torna a citare Possession di Zulawski attraverso il nascituro tentacolato; ma anche la sfilata dei papi di Federico Fellini, il fondamentale Häxan / La stregoneria attraverso i secoli, 1922 di Benjamin Christensen (la scena del parto), i deliri anticlericali di The Devils / I diavoli, 1971 di Ken Russell (soprattutto nell’immagine della Madonna che sovrasta i corpi nudi delle streghe), The Tragedy of Macbeth / Macbeth, 1971, ancora Polansky – il cui Rosemary’s Baby, 1968 fornisce più di un’influenza alla trama. In una scena antecedente – quella in cui Margaret Morgan (una straordinaria, quanto irriconoscibile, Meg Foster, nota, tra gli altri per They Live / Essi vivono, 1988 di John Carpenter) viene processata e messa al rogo – non mancano i rimandi a La maschera del demonio, 1960 di Mario Bava.
(2) = E ancor più negative appaiono, in questo contesto, le rapidissime e improvvise apparizioni della strega, forzatura di un effetto perfino abusato nel cinema di paura degli ultimi decenni e, quindi, completamente privo di efficacia terrorizzante; oltre che risultare del tutto avulso dal contesto teorico a cui la pellicola si ascrive. Lecito è il sospetto che, in definitiva, si sia tentato un omaggio al produttore Oren Peli e alla sua “franchise” Paranormal Activity.
(3) = È soprattutto in questo contesto che la presenza dei pannelli scenici dedicati a Georges Mélliès assumono significato e importanza.