I Depeche Mode fanno parte da tempo di quelle band intrappolate, anche proprio malgrado, nella comfort zone derivante dallo status che una solida e, senza dubbio, dignitosissima carriera gli ha riconosciuto. Una fan-base consolidata e in continua espansione, stadi pieni sulla fiducia, record di vendite ad ogni nuova uscita: Martin Gore, Dave Gahan e Andrew Fletcher non sono mai stati i “classici” mostri sacri degli Anni Ottanta da preservare in formaldeide, bensì un gruppo per tutte le stagioni, che ha sempre accontentato i nostalgici quanto una schiera nutrita di giovanissimi adepti. I Depeche Mode, forse più degli U2, per citare un caso simile, hanno saputo chiamare a sé un caleidoscopio variegatissimo di seguaci: tanto i fanatici dell’elettronica quanto i radioascoltatori occasionali, tanto i “darkettoni” quanto, finanche, certi puristi del “rock”, tanto gli amanti della “pop music” quanto i palati minimamente “ricercati”. Tutto questo senza essere dei veri e propri pionieri o dei fuoriclasse, né dell’uno né dell’altro genere, ma semplicemente unendo l’essenzialità e l’immediatezza delle proprie composizioni a produzioni eccellenti ed estremamente efficaci.
La domanda è: cosa ci si aspetta da un album dei Depeche Mode nel Duemiladiciassette? Dopo una serie di dischi “senza infamia e senza lode”, ovviamente, ci si aspetterebbe il “miracolo” o, quantomeno, quel quid in più che possa riaccendere un “intrigo” maggiore nel gruppo, che non sia esclusivamente quello scaturito dalla curiosità di ascoltare “il nuovo album della band di culto”.
Con “Spirit”, c’era da aspettarselo, il miracolo non avviene. Poco male, però, perché stando ai tristemente poco ispirati “Delta Machine” e “Sounds of the Universe” qui si percepisce una spontaneità maggiore, non eclatante, ma decisiva per poter apprezzare le dodici tracce di cui consta il disco. Insomma, “Spirit” è il compitino riuscitissimo in pieno stile “Depeche” post-Wilder ma che sceglie di bypassare gli estremismi sintetici di “Sounds of the Universe” o le velleità “electro-soul” un po’ barocche di “Delta Machine” per restituire un po’ di sana cupezza, non temendo di risultare greve.
Con la complicità di James Ford (già al lavoro con Arctic Monkeys e Klaxons), il trio di Basildon sceglie di recidere la collaborazione con Ben Hillier, intraprendendo scelte stilistiche decisamente meno altisonanti. Fa piacere, dunque, riscontrare che la ricerca sonora sia maggiormente sospesa tra passato e presente, senza sforzarsi di risultare attuale, riuscendo nel proposito di suonare “fresco”, ma nello stile inconfondibile dei Nostri. Un po’ “Ultra” negli intenti, con qualche ammiccante synth à la “Black Celebration”, perfino, senza l’ansia di “azzeccare” a tutti i costi delle hit da classifica: se “Spirit” non risulterà memorabile come gli episodi sopracitati di certo suonerà come il prodotto più autentico da quel “Playing the Angel” che, diciamolo, rappresentava una boccata d’aria fresca niente male, col senno di poi.
La vera novità di “Spirit”, tuttavia, risiede nelle tematiche. È la prima volta, infatti, che i Depeche Mode tentano di “parlare alle coscienze” – se escludiamo vecchi episodi sporadici e decisamente imberbi come “The Landscape Is Changing” – e l’effetto risulta piuttosto disarmante. Disarmante perché, semplicemente, si è stati sempre abituati a questioni di carattere emozionale e, senza dubbio, l’oscurità che pervade l’album è anche da ricercare nel tentativo di ricreare la colonna sonora ideale per i tempi che corrono. Un “effetto Trump”? Può darsi, ma, ancor più plausibilmente, si tratta di un “effetto mezza età” del tutto benemerito, che mette in discussione l’andazzo generale con lo sguardo poco indulgente di chi pensa di aver visto giorni migliori.
Il bell’incipit di “Going Backwards”, sorretto da un piano martellante e da pulsioni di drum quasi industrial, tuona “We’re going backwards / Armed with new technology / Going backwards / To a cavemen mentality” e introduce quello che sarà il leitmotiv di gran parte del lato A. “Where’s the Revolution” – pericolosamente simile, nella melodia, a “Corrupt” di “Sounds of the Universe” – e l’amarissima “The Worst Crime”, allo stesso modo, sciorinano a ruota libera le suggestioni altamente disforiche scaturite dal vivere nell’epoca dei “neo-primitivi tecnologici”, “apatici” e “disinformati”, mentre, sul fronte stilistico, ci troviamo in costante equilibrio tra spinte downtempo ed electroclash e minimalismi soul ormai tanto cari a Gahan. Sempre più spogli, questi ultimi, come dimostra proprio la struttura scheletrica di “The Worst Crime”: nient’altro che voce e chitarra, con un piccolissimo “cameo” di batteria sul finale. Intriganti le ruvidità di “Scum”, un po’ meno entusiasmanti gli electro-blues “lynchani” di “Poison Heart” e “Poorman”, brani che non si fatica ad immaginare interpretati proprio dal Lynch di “The Big Dream” in versioni più dilatate.
Gli episodi più “ballabili”, alla fine, risultano anche quelli più immediati ed efficaci sulla lunga distanza, perché mantengono salda la tetraggine di fondo ma sviluppano tensioni più suadenti, quasi “erotiche”, vuoi per i synth, svecchiati (“You Move”) e un po’ retrò (“No More (This Is the Last Time)”), vuoi per gli inserti della chitarra di Gore, dosati e misuratissimi come sempre (“So Much Love”). A proposito di Gore, deludono un po’ i brani firmati esclusivamente dall’angelo biondo: “Eternal” e “Fail” non fanno che confermare le capacità vocali del Nostro, ma ben poco aggiungono all’economia del disco, se non un po’ di pomposa, per quanto scarna, epicità. Meglio il lamento pop di Gahan in “Cover Me” che, sebbene cerchi costantemente di manipolare la sua personalissima idea di “soul music” à la Soulsavers maniera, contribuisce in modo efficace a confezionare una delle canzoni più “speranzose” e meno torve del disco.
“Spirit” non sarà il miracolo che alcuni seguaci delusi cercavano ma, pensandoci bene, è ciò che tanti amanti dei Depeche Mode si aspettavano. Un album che suonasse come i Depeche vecchi e nuovi, con un pizzico di “spirito” in più, appunto, che al netto di tutto non può essere trascurato. “Spirit” è un album arrabbiato ma non “furioso”, accorato ma non “annientato” dalla malinconia di cui è carico, e a tale veemenza, così come ad un significativo grado di amarezza, ci si può aggrappare per ritrovare l’anima di una band che per troppo tempo ha campato di rendita. Nella ricerca sonora, sempre attualissima, compaiono ora piccole ma importanti bolle di autenticità – che risiedano nelle capacità di Gore di “smanettare” con i synth, nella carica emotiva di Gahan o, beh, in qualsiasi cosa faccia Fletcher, poco importa: i Depeche Mode, quando vogliono, dimostrano di sapersi ancora spogliare di certi ingombranti archetipi di “band da stadio” per scrivere qualcosa di più viscerale. “La primavera, intanto, tarda ad arrivare.”