L’universo musicale, come qualsiasi altra galassia artistica del ‘900, ha sempre avuto bisogno dei suoi “disturbatori”. Se Russolo e Pratella hanno generato schiere di pionieri e di esploratori del suono, il seme infetto della sperimentazione ha continuato a serpeggiare nel grembo della musica colta e popolare fino ad oggi, spesso celandosi agli occhi dei più o camminando al fianco delle avanguardie letterarie e coltivandone il furore. In un periodo intellettualmente arido, dove i collage di Bruce Conner e i cut-up di Burroughs restano un singulto irripetibile tra le pagine sbiadite del nostro passato, dove la musica coincide in maniera completa con la mercificazione seriale, Khem sorge dal sottosuolo dell’industria discografica reclamando il vessillo di anti-eroe con un full-lenght che assembla con prepotenza l’eredità di gloriosi e dimenticati “outsider”.
Cosimo “Zos” Mungheri è la mente e il perno sul quale si fonda Khem, un collettivo, un progetto che definire equivale a depauperare di qualsiasi essenza. Circondatosi di figure di spicco delle dissonanze quali Devis Granziera del Teatro Satanico e Divine Negation (aka Terreni K), “Zos” tesse il proprio oscuro arazzo composto da trame graffianti e pericolosi intermezzi lisergici. “The Cross”, che porta il marchio della Old Europa Cafe, etichetta divenuta leggendaria tra gli amanti delle sonorità marziali, ambient e neo-folk, è un vero e proprio impenetrabile viaggio negli anfratti più reconditi della mente, una seduta psicanalitica condotta dai nostri personalissimi demoni. “Babalon the Harlot” inaugura il nero simposio accogliendoci in una fumosa spirale di sussurri e cavernosi rintocchi sintetici, un’autentica preghiera che paga il proprio tributo alle incursioni più cupe degli Psychic TV e spiana la strada ad episodi più estremi quali “Psalm” e “Aiwaz”. La salmodia ossessiva, unita alle eco elettroniche, assume i tratti di un’inquietante rito celebrativo quando ci si trova a prestare orecchio a “prof. Bad T.R.(ip) I.(n) P.(eace)”, il brano (che sembra reprimere il furore punk dei Whitehouse in favore di un disegno più mistico) ovviamente dedicato alla memoria di Gianluca Lerici, uno degli artisti del sottobosco italiano più interessante degli ultimi trent’anni, che con il proprio stile visionario ci ha lasciato un’eredità unica in campo figurativo.
Se “Fourth Way” e “Syrens of Taras” ricalcano le orme -di gran lunga più sporche e rarefatte- dell’intramontabile binomio Balance-Christopherson, la title-track restituisce un uso dell’elettronica più rumorista, strizzando prepotentemente l’occhio agli SPK del seminale “Leichenschrei” e facendosi portavoce di un genere abbandonato e custodito da un culto ormai ridotto di affezionati. Scomodando ancora una volta il Socialistisches Patienten Kollektiv affrontiamo quello che possiamo definire “l’intermezzo italiano” dell’album; “Pazienti Socialisti Khem” non è solo un sottile e gradevolissimo tributo nichilista al gruppo precedentemente menzionato, quanto un manifesto crudo e diretto della decadenza sociale tutta, un pugno nello stomaco mascherato da proclama politico che sembra scandito da altoparlanti di orwelliana memoria. “Fatto di cronaca” si fa strada tra virtuali tamburi di guerra come un’opera “beat” ardente, mentre “Peggio” rappresenta l’ideale chiusura di questo “trittico” che demolisce le categorie attraverso lo stridore acuto e tagliente di immaginari macchinari d’industria, a lavoro su una serie di etichette onnipresenti nel linguaggio quotidiano fatto di sentenze e di dita puntate.
“The Cross” è un ascolto che non lascia scampo, un artiglio che intrappola il fruitore e lo lascia solo alla fine di questo incubo claustrofobico. Qualche anno fa poteva accadere che tra gli intoccabili dinosauri del rock e tra i glabri cavalieri del pop si sentisse finalmente parlare di “freak” autentici che ostentassero le proprie deformità e il proprio disagio sociale come un valore da contrapporre a stadi stracolmi e a furbi motivetti da college radio. Le imprese di personaggi quali Genesis P-Orridge e Cosey Fanni Tutti atterrivano e costringevano gli inconsapevoli a guardare ciò che la loro mente di sicuro conteneva, ma non era capace di liberare a causa dei rassicuranti sigilli sociali. “Zos”, lo si intuisce, è prima di tutto un adepto, un seguace inossidabile di quella schiera intramontabile di disadattati che è riuscita a fare la differenza in momenti densi di convenzione e di conformismo. In virtù di questa genuina devozione, Khem indossa le insegne da sciamano e ci restituisce un lavoro importante, dal sapore “old school”, che dimostra comunque di aver fatto propria la lezione dei suoi padri. E’ indubbio che questa “prole degenere”, come ama definirsi il collettivo, dell’elettronica, del noise, dell’ambient più buio, si faccia carico di una grossa responsabilità: quella di riempire un vuoto nella scena più coraggiosa e sperimentale italiana, disseminando -come si spera- altri figli e altri aedi, che possano sviscerare l’arte da ogni ricerca di senso e demolire il “maledetto muro” che continua a crescere nelle nostre teste, ormai chine, ormai arrese.
“4′ 33″ ” di John Cage, posta come solenne finale del disco, chiama come testimone ultimo il silenzio, mettendo una mano sulla bocca di chi cercherà di spiegare, di analizzare e di discorrere. Leggete ciò che ho scritto e cancellatelo, dimenticatelo. Khem, per fortuna, non si spiega. Si ascolta, come si ascolta il rombo degli aerei da un bunker, mentre si aspetta che sgancino le bombe.