I Siegfried si sono distinti nel corso degli anni per aver prodotto dischi in nessun modo affiliabili a “scene” varie ed eventuali. Se il primo album risentiva in modo piuttosto claudicante del calderone neofolk e dell’ingente (e benemerita) influenza di IANVA, disco dopo disco il gruppo di Sassuolo è riuscito ad assecondare in maniera efficace le proprie inclinazioni e il proprio spirito, disegnando una personalità forte, sempre in bilico tra una scrittura particolarmente ricercata e la furia abrasiva degli istinti.
Quando ormai sembrava che i Siegfried avessero trovato il proprio ideale e confortevole equilibrio nella dimensione epica ed elegante di “Salmo delle tempeste”, ogni certezza viene spazzata via da “K”, il quarto album in studio del quintetto emiliano.
Decisamente, “K” non è in alcun modo simile a ciò che la band abbia composto in precedenza.
Monolitico, articolato, complesso: questo album sembra voler portare i Siegfried verso un altro livello di comprensione. Non si illuda chi credeva di conoscerli; se i tratti salienti del gruppo sono ancora distinguibili (come la voce di Giovanni “Leo” Leonardi, ormai completamente spontanea e del tutto priva di quel “baritonale” forzato degli esordi), la composizione, la produzione e la stessa attitudine dei componenti sono cambiati. Non c’è più spazio per la forma-canzone tradizionale quanto, piuttosto, una voglia di spingersi verso territori inesplorati, dove demolire e sezionare le strutture dei brani a piacimento.
Insomma, sembra proprio che i Siegfried non amino le cose facili e immediate. Ciò è presto intuibile dal binomio inscindibile dell’incipit: “Kundalini Rising” e “Distonia” vanno a braccetto in un delizioso incontro-scontro di intenti. L’orientaleggiante strumentale è così onirico che sembra preparare l’ascoltatore a un’esplosione imminente, col suo andamento sinuoso e cadenzato, e l’esplosione, come da copione, arriva forte e chiara. “Distonia”, che risulta essere anche il primo singolo estratto, è una marcia graffiante e distorta di sei minuti, scandita dall’irresistibile riff di chitarra di Fabrizio Forghieri. Il recitato di Leonardi, che riprende un testo di Simone Poletti (alias Dinamo Innesco Rivoluzione, nume tutelare del gruppo), è interpretato e sofferto, e restituisce una prova teatrale di gran pregio.
Se “Sentenza” riprende le suggestioni ipnotiche di “Kundalini Rising”, “Berserkir” ci introduce a una rabbia più feroce di “Distonia” e certamente inedita per l’intera produzione del gruppo. Le notevoli finezze della sezione ritmica sono solo alcune delle peculiarità di questa traccia che, più di tutte, potrebbe costituire il manifesto ultimo di “K”. È davvero furore, quello che scaturisce in questo brano: le urla strazianti e i soli altamente dissonanti di chitarra à la Dario Parisini ci dicono forte e chiaro che non usciremo vivi dal “nuovo mondo” dei Siegfried.
Gli azzeccati inserti di synth e tastiere, d’altro canto, preannunciano ciò che nelle successive tracce dell’album viene definitivamente confermato: l’elettronica risulta elemento vieppiù rilevante in questo quarto volume. Che il side-project Carnera di Leonardi abbia in qualche modo influenzato questa scelta compositiva? La risposta si perde nelle distopiche pulsazioni di “Psicopolizia”, così come nei vortici oppressivi de “La follia di Nijinsky” e di “Kraken”, in cui le lacerazioni al limite del doom si integrano alla perfezione con il controcanto fumoso dei synth (in “Kraken”, sembra quasi di ascoltare lo spaventoso verso della piovra che troneggia in copertina).
Soltanto “Sopra un erotik” spezza il leitmotiv di un album così caustico e mordace, prendendo in prestito le parole del D’Annunzio più edonista (e masochista). Il risultato? L’unica traccia semi-acustica dell’intero disco diventa anche l’unico brano “cantato”. Leonardi sveste i panni di “araldo” per indossare quelli di “aedo”, tra l’altro, restituendo una buona prova vocale, che tanto piacevolmente rimanda alla meravigliosa “Notturno d’Ypres” del precedente “Salmo delle tempeste”. A mischiare ulteriormente le carte in tavola ci pensa un’inaspettata e personalissima cover di “Trans Europe Express” dei Kraftwerk che prelude alla coda lisergica e “danzereccia” di “Kenaz Muzik”. A sigillare definitivamente il lavoro, tuttavia, è la ghost track “La notte di Valpurga”, ibrido celebrativo tra electro-industrial e contrappunti di hard-rock andante.
“Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate” nell’estremo tramonto di “K”: questo album vi avvilupperà con i suoi mille tentacoli, tenendovi stretti in una morsa aggressiva, violenta, dai guizzi sempre imprevedibili. Una prova musicale più che autoriale, dove le capacità di ogni singolo componente del gruppo emergono nell’impeto della presa diretta e dell’improvvisazione, senza rinunciare alla cura dei dettagli ma, altresì, non rischiando di affinare alcunché. Se “K” vi risulta ostico, o meglio, se vi prende alla sprovvista, vuol dire che questo disco ha compiuto il suo lavoro. Non più passione bruciante muove il braccio di Siegfried, ma furia meccanica e animale. Una furia che, in Italia, è svanita nella mollezza dell’industria discografica. Lunga vita.