Sembra incredibile, ma ce l’hanno fatta. A ben sedici anni di distanza dall’ibrido e piuttosto sfortunato Freak Magnet, i Violent Femmes sono tornati. Dopo intere stagioni trascorse a leggere di denunce, rotture, dissapori, reunion complete e incomplete, eventualmente gioendo per un tour celebrativo o per un EP di quattro brani (Happy New Year, uscito in esclusiva per il Record Store Day dello scorso anno), We Can Do Anything sancisce, con un po’ di ritardo, la decisiva e rassicurante stretta di mano tra Gordon Gano e Brian Ritchie.
Orfani dal 2013, e per loro stesso volere, del batterista Victor DeLorenzo, Gordon e Brian hanno finalmente deciso di registrare, con l’ausilio di Brian Viglione (The Dresden Dolls), dieci brani old school e al fulmicotone: un numero onesto e non dispersivo di tracce per compiere il proprio importante ritorno sulle scene. Se, poi, a complicare la matassa dei rapporti contribuisce l’abbandono di Viglione ad appena un mese e mezzo dall’uscita dell’album, niente paura: John Sparrow (reclutato direttamente dagli Horns of Dilemma, la storica backing band del trio di Milwaukee) è già pronto a raccogliere le bacchette e a partire per il tour promozionale.
Alla luce degli avvenimenti passati e presenti si potrebbe facilmente pensare che l’impresa di far risorgere il nome dei Violent Femmes dalle ceneri di un glorioso e travagliato passato risulti ancora una volta impossibile ma, sorprendentemente, non è questo il caso. Oltre qualsivoglia aspettativa o previsione, Gordon Gano e Brian Ritchie sono riusciti nell’intento migliore che potessero perseguire: confezionare un buon disco.
Schietto, immediato, efficace e senza alcuna pretesa di assurgere al grado di capolavoro, We Can Do Anything funziona esattamente per gli stessi motivi che trascinerebbero giù dal podio moltissimi artisti contemporanei: l’estrema, disarmante semplicità. I Violent Femmes, del resto, sono rimasti impressi nell’immaginario collettivo per aver portato la musica pop, il rock e il folk a un livello compositivo completamente opposto rispetto a quello che era in voga negli anni Ottanta, diventando ben presto lo stendardo attorno al quale i disadattati di tutto il mondo potessero finalmente stringersi. Oggi come ieri.
Qualora, dunque, non faccia piacere leggere che l’incipit del nuovo album di Gano e Ritchie sia stato ripescato da una vecchia e polverosa demo, Memory è pronta a ridimensionare le aspettative con un piglio semplicemente catchy e accattivante, di quelli che fanno pensare che, tutto sommato, è stata una bella decisione quella di non lasciare nell’oblio una canzone così. Per i più guardinghi, per fortuna, segue la polka di I Could Be Anything, posta a rinforzare la convinzione che questo sia un classico disco dei Violent Femmes, né più né meno. Scanzonato, solare, malinconico, rassicurante: questo album è tutto ciò che si richiedeva dalla formula che ha fatto la Storia del trio.
Il filo conduttore è il folk-punk visionario di sempre, con la voce graffiante e sbilenca di Gano nel ruolo di protagonista indiscussa, intenta a declamare versi costantemente bizzarri, sostenuta da una ritmica solida, ma sempre pronta a sorprendere. Gli strumming sbarazzini di chitarra viaggiano tra gli stop ‘n’ go di Viglione – mediante la solita batteria ridotta ai minimi termini – e il basso acustico incontaminato di Brian Ritchie. Coscienti di questo, l’ascolto prosegue rilassato, tra episodi romantici come What You Really Mean, passaggi più disincantati come Untrue Love (Gordon Gano o Johnny Cash?) e litanie cupe e incalzanti quali Holy Ghost e Traveling Soles Everything, che ci catapultano direttamente alle atmosfere di Hallowed Ground (ascoltare per credere). Notevole l’inno scarmigliato di Issues, uno dei fiori all’occhiello dell’album insieme a Foothills e Big Car, due canzoni back-to-basics, che hanno tanto il retrogusto del debutto, sia musicalmente che tematicamente, con chiari riferimenti alla masturbazione e ai risaputi problemi di Gano con le ragazze.
Ciò che emerge ascoltando ascoltando We Can Do Anything è la sensazione che il tempo non sia passato minimamente. Da Memory a I’m Not Done, il disco sembra aver riesumato una sessione perduta e sospesa nel tempo, che va dall’uscita dell’album omonimo al rilascio di Hallowed Ground. Il dubbio che dietro la decisione di pubblicare del materiale inedito si celi il bisogno di cavalcare la cosiddetta “operazione nostalgia” è legittimo ma, bisogna ammetterlo, l’impresa funziona. Niente di nuovo sotto il sole, con Gordon e Brian a condurre i giochi, a fare e a disfare, ma sappiamo bene che i Violent Femmes non hanno mai dato il meglio di sé nel tentativo, anche minimo, di rinnovare la strategia. Si accolga allegramente questa manovra: che sia dettata da logiche commerciali o che sia la genuina necessità di mettere nero su bianco una rinnovata, per quanto familiare, ispirazione. Fossero tutte così gradevoli, le reunion.