Un “viaggio al termine della notte” è il percorso musicale dei Boy Harsher. Non sto qui a raccontare la storia del duo americano, ci penseranno altri magari. Sia perché si tratta di un nome che ormai gira già da un po’ con una certa insistenza nel giro della scena oscura e sia perché il “copia incolla” dalle biografie ufficiali è una pratica che non mi si addice. “Country Girl Uncut” non è il nuovo lavoro del combo statunitense ma poco ci manca. Si tratta della ristampa su cd di una prova licenziata precedentemente solo su cassetta e nel solito (ed odioso per me) formato digitale. Ed il “viaggio” sopra menzionato, partito già da qualche anno, continua anche ora.
La forma resta uguale e fedele ad una tradizione elettrowave che affonda le radici nella verginità degli anni ‘80 (non mi chiamate pazzo ma il brano “Westernes” ricorda alcune cose di “Stranger” dei Clan of Xymox) ma che guarda agli umori ed agli odori moderni.
Le pulsazioni elettroniche, ballabili e sensuali che tanto vanno di moda nelle balere dark, hanno trovato nei Boy Harsher un compimento perfetto. Una cifra stilistica completa ed assoluta per evocare appunto atmosfere notturne, trascorse magari in una macchina che solca una strada lucida da un’umida pioggia. E da qui prendono forma immagini che si modellano nel e dal buio. Due fari di automobile che illuminano un breve tratto di strada, con la striscia che delimita le due corsie e che insegue se stessa frenetica, e con un orizzonte di visibilità brevissimo. La vista si annebbia e si offusca ed è la musica di “Motion” a condurci.
Immagini di una corsa sostenuta ma non folle, viaggio senza destinazione se non l’alba.
E facendoci strada tra la lunghezza e la monotonia del percorso è “Electric” a mostrarci con paziente ma costante andamento i contorni delle cose. Non è più il controllo ad essere al centro della guida ma la più pura residuale istintività, quella detentrice dei nostri desideri, dei nostri impulsi, spesso irrazionali e non sempre completamente accettabili.
Un viaggio che sembra lineare ma che in realtà è circolare come tutti i brani dei Boy Harsher (la title track è un must a tal proposito), una realtà che come una figura astratta gira su se stessa così da imporre all’ascoltatore uno stato di alterazione della realtà percepita, come ad indurre una sorta di dissociazione della personalità. Una vertigine del pensiero, le infinite psicosi realizzabili dal nostro cervello, un viaggio notturno che poi si rivela essere una fuga (“Swing”) o una copula simulata, un’unione di mondi paralleli.
Un’alternanza tra reale e sogno, surreale e irreale, immagine, movimento e spazio. Probabilmente, o forse è solo la mia folle interpretazione, quello che la musica di questo disco, ma di tutta la discografia dei Boy Harsher, riesce ad evocare. Non mi fate fare paragoni con gruppi del passato, qui si parla di humus e di adesione ad uno stile di vita che sarebbe riduttivo ghettizzare solo all’interno delle piste da ballo. La musica dark (termine che odio ma che rende l’idea), alla fine, altro non è che il desiderio di controllare quello che non si riesce a fare: l’incapacità di mantenere il controllo sulla propria vita perché non si comprende il senso della vita stessa. Come un gioco di morte e di pulsione che ci conduce verso l’alba. D’altronde lo diceva anche Gibran: “per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte”.