Cosa aspettarsi da questo album dei She Past Away? Nulla di nuovo, nulla di diverso, come non si fosse mai spenta la vena dark retro’ che li contraddistingue, come fosse una prolunga del loro primo full-length Belirdi Gece, come se gli anni 80 non fossero mai realmente passati, a casa abbiamo ancora il giradischi, è appena uscito Amsterdam dei Diaframma, Piero Pelù non si immagina ancora di ritrovarsi tra vent’anni a cantare freddure tipo Toro Loco, è ancora strafigo nei Litfiba e con questo Narin Yalnizlik la nostra collezione dalle copertine nere e sfuocate si arricchisce di un’altra perla. E’ un po’ come se cercando su internet ci trovassimo a riscoprire un gruppo che c’è sfuggito, quasi come fosse una reunion, e invece è tutto come in una piccola bolla
temporale. Non è un revival, loro sono degli anni 80 punto e basta. Il suono è minimale, niente di troppo pensato, niente calcoli, nessuna post produzione faraonica, basso pulito, qualche spruzzata di chorus, ma niente variazioni, guai a chi tocca il settaggio dell’equalizzazione, deve suonare così, tremendamente vintage e ovattato venuto da un mondo ancora tutto analogico. Asimilasyon è una droga musicale, con la drum machine che suona come la Roland TR 808, e i synth che irrompono spettrali e ipnotici, come fossero suonati da John Carpenter in persona, la chitarra è essenziale, basta uno sprizzo di musicalità in più per renderla un tormentone, e poi ti arriva la voce. L’istinto ti dice che non può essere Carl McCoy, ricordi di aver letto che il suo progetto solista si chiamava Nefilim, non può essere lui, eppure saresti quasi disposto a metterci la mano sul fuoco, e quando leggi che i testi sono in turco ti viene da dire “chissenefrega”, sarà un problema in meno doverli imparare per ballare a un loro concerto. Volkan e Doruk hanno scelto il turco, perché sono turchi, e il mondo fatto di “canto in inglese perché è più musicale” loro lo snobbano e fanno bene, perché l’originalità delle linee melodiche spiazzano e si fondono in un’atmosfera che culla l’ascolto. Undici brani per 45 minuti, i pezzi si dilungano senza la fretta del “quanto durano”, Soluk scivola come una romantica ballata nostalgica, un po’ come Hayaller che pur non avendo lo stesso piglio da mossa è una delle tracce più apprezzabili. La voce si allunga in un riverbero lontano, la decadenza del registro regala emozioni, basso e chitarra ne fanno parte, ma come in punta di piedi, senza disturbare, senza alterare un’atmosfera sognante. Narin Yalnizlik (Delicate Solitudini) è un’immersione continua in paesaggi spettrali, evocativi, un concentrato di input nostalgici che stimolano la mente e ti lasciano immaginare e immaginare scorci di mondi lontani e nascosti, ripresi con una vecchia cinepresa che monta ancora nastri super 8 , una colonna sonora gotica quasi in chiave cinematografica che in verità pur non essendo così tanto ricercata negli arrangiamenti e nelle strutture dei brani è la giusta dimensione. I She Past away fanno ancora centro, mettendo a fuoco il loro suono, rendendolo ancor più personale, riuscendo a essere contemporanei e non copie di un’era lontana, ed è questo che è disarmante. Non ci rimane che attenderli ancora in Italia. Mamma arrivano li turchi. Noi siamo già con le braccia aperte.