Manji è un samurai solitario che trascorre le sue giornate in compagnia della sorella, una ragazza afflitta da evidenti deficit mentali. In realtà egli non è un ronin come gli altri, in quanto sulla sua testa pende una taglia che, come una sorta di magnete, attirerà le attenzioni di persone poco raccomandabili. Sebbene una certa abilità con la spada, durante un’imboscata il povero samurai non solo verrà quasi ferito a morte, ma vedrà soccombere sotto i suoi occhi l’amata sorella. In suo soccorso verrà Yaobikuni, una sorta di strega centenaria che misteriosamente deciderà di donargli un regalo tanto immenso quanto pericoloso: l’immortalità. Dopo cinquant’anni passati in perfetta solitudine, l’immortale combattente sembra ormai ridotto ad un perfetto eremita rinchiuso in una squallida capanna. Sfortunatamente per lui, il periodo di isolamento verrà interrotto dall’arrivo di Rin, una ragazzina decisa ad assoldarlo come guardia del corpo allo scopo di uccidere i membri della scuola di Ittō – ryū, responsabili della morte dei genitori. Manji, dapprima riluttante, accetterà la richiesta promettendo di proteggerla e di esaudire le sue richieste.
E sono cento! Si, perché con “Blade of the immortal”– tratto dall’omonimo manga di Hiroaki Samura – il buon Takashi Miike timbra per la centesima volta il suo già scintillante cartellino cinematografico. Messe da parte le implicazioni psicologiche e le derive demenziali dei suoi ultimi e recenti lavori ( “Over your dead body” e “Yakuza Apocalypse”), il mai domo regista nipponico mette in scena una storia dove l’azione e le scintille delle lame che si scontrano tra di loro amoreggiano, con fare divertente e gustoso, con il fantastico. Il bianco e nero iniziale, oltre ad avere uno scopo narrativo ben preciso, dopo i titoli di testa inizierà ad acquisire colori vibranti e importanti nell’indicare allo spettatore il nuovo percorso che il protagonista – uno scorbutico e simpatico Takuya Kimura – dovrà irrimediabilmente affrontare. Armato di tutto punto, con una serie di lame, spade e spadoni da far impallidire anche il ninja più esperto, il nostro “quasi supereroe” si presenterà agli occhi della dolce Rin con uno stranissimo ma simbolico kimono bianco e nero, sorta di costume volto a simboleggiare la contrapposizione per eccellenza: lo Yin & Yang. Simbologia buddhista a parte, la pellicola parrebbe comunque fare da convergente alle diverse sfumature che da sempre caratterizzano questa filosofia; il dolore, la gioia, la vendetta e l’affetto, in questo contesto, diventano difatti parte integrante di una ricerca dove l’equilibrio finale raccoglie e si alimenta di tutti i poli opposti insiti nell’animo umano.
Seppur animato da un messaggio di fondo sicuramente sentito e di oggettiva spiritualità, il film vive di momenti roboanti ed altamente spettacolari nei quali l’estro e la tecnica del maestro di Osaka escono prepotentemente allo scoperto. Assistendo al ritmato dipanarsi di questa vicenda dai toni “revenge”, non si può far altro che divertirsi nel vedere la sequela di personaggi – tanto colorati quanto pittoreschi – che puntualmente vengono letteralmente gettati nello schermo in maniera assai vivace e giocosa. Guerriere scosciate e vestite con abiti dai cromatismi sgargianti, samurai mascherati e dai capelli appuntiti, assassine mercenarie biondo platino; una sorta di videogioco in pieno stile miikiano, insomma. La potenza visiva viene maggiormente sorretta da un livello tecnico di assoluta eccellenza nel quale, con padronanza sublime, il navigato autore controlla a suo piacimento i tempi di regia, nonostante il montaggio snoccioli comunque una certa velocità narrativa. Le scene di massa sono coreografate con miracolosa precisione e innata scaltrezza, con vorticosi movimenti di macchina dispensati con raffinata naturalezza e fluidità palpabile in ogni singolo fotogramma. La velocità di esecuzione – fondamentale in prodotti come il qui analizzato – è però spesso lasciata da parte per dare spazio ad attimi dove la posatezza registica si regala sequenze suggellate da componimenti pittorici di assoluta caratura estetica (per chi scrive, Miike è uno dei registi viventi con il miglior gusto per le inquadrature) che non solo danno valore agli esterni, ma in special modo agli interni.
Cos’altro aggiungere sull’opera in questione? “Blade of the immortal” è senza dubbio alcuno una pellicola che andrebbe semplicemente vista e gustata in tutta la sua bontà visiva, in quanto realizzata da un autore che fa della creatività e della voglia di stupire i suoi punti di forza. Azione, combattimenti, ironia, splatter, ma anche tanta profondità. Grazie, Miike!