Secondo omaggio al cinema giallo italiano (in particolare, a quelli prodotti dalla coppia Mino Loy/Luciano Martino: da Il dolce corpo di Deborah, 1968 di Romolo Girolami a Tutti i colori del buio, 1972 di Sergio Martino) da parte dei due registi – Hélène Cattet e Bruno Forzani – di Amer, 2009. Ricco di citazioni – a partire da una colonna sonora composta da brani di repertorio presi da colonne sonore e autori “doc” (Bruno Nicolai: Gatti rossi in un labirinto di vetro, 1975 di Umberto Lenzi; Guido e Maurizio De Angelis: I corpi presentano tracce di violenza carnale, 1973 di Sergio Martino; Riz Ortolani: Così dolce… così perversa, 1969 di Umberto Lenzi; Ennio Morricone: La corta notte delle bambole di vetro, 1972 di Aldo Lado; Peppino de Luca e Carlo Pes: Il dio chiamato Dorian, 1974 di Massimo Dallamano), ad arrivare a una parte scenografica e pittorica che prende in prestito colori, location e atmosfere dal mare magnum del “cinéma d’epouvante” italiano anni ’70 (Suspiria, 1977 di Dario Argento; Il profumo della signora in nero, 1974 di Francesco Barilli; il già menzionato Tutti i colori del buio; et alia), passando per continue strizzate d’occhio (come l’abito rosso dell’assassino: La Dama Rossa uccide sette volte, 1972 di Emilio Miraglia) – quanto confuso ed emicranico nel percorso narrativo costruito con base labirintica e volutamente elusiva dagli stessi due “metteurs-en-scène”, risulta in un film assolutamente meraviglioso da vedere, ma emicranico e tortuoso da seguire, con quest’ultimo difetto che ne limita fortemente l’aspetto “thriller”, soffocando tanto la tensione e, alla lunga, annullando il fascino del mistero. D’altro canto, la rappresentazione visiva – che, a voler essere pignoli, offre un surplus “artsy” – è curata sin nel più minimo dettaglio, rasentando – ma forse nemmeno – la perfezione assoluta. La fotografia del belga Manuel Dacosse (Alléluia, 2014 di Fabrice Du Welz) recupera, in una paletta ricchissima, l’intensità e la brillantezza delle immagini di Mario Bava (6 donne per l’assassino, 1964), di Argento (Profondo rosso, 1975, DoP: Luigi Kuveiller), di nuovo dei lavori Loy/Martino (Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer?, 1972 di Giuliano Carnimeo, fotografia di Stelvio Massi), con sovrapposizioni di rossi, blu, verdi vivacissimi che, come in un preciso gioco caleidoscopico, arricchiscono un diascopia iconografica di notevole appiglio (primissimi piani di occhi, di tracciati geometrici, di soggetti fortemente feticisti). Con un montaggio a volte trasognato altre volte più brusco, Bernard Beets (anche lui, come la maggior parte della “crew”, già presente in Amer) antologizza una varietà di stili cinematografici (compreso il “photo-film” alla La jetée di Chris Marker) che, se da un lato non ne rende certamente più semplice la fruizione, dall’altro innalza il tasso creativo ulteriormente, alimentando uno stupore visivo/visionario come – con qualche rara eccezione – non si era mai visto negli ultimi lustri. Il danese Klaus Tange (The Forbidden Girl, 2013 di Till Hastreiter) è – in una prova assolutamente estraniata – il protagonista, un certo Dan Christensen, che al rientro a casa dopo un viaggio d’affari in Germania, trova l’appartamento chiuso dall’interno e deserto, la moglie apparentemente svanita senza lasciare traccia. Le sue personali indagini non portano che alla scoperta di ulteriori misteri e segreti nell’antico e lussuoso palazzo in cui abita; e l’intervento di un detective della polizia non produce nessun miglioramento. Intrappolati in una ragnatela più grossa di loro (un riferimento polaskiano (1), che si può ritrovare anche in film come Tutti i colori del buio, La corta notte delle bambole di vetro, o Il profumo della signora in nero) si troveranno trascinati sino a un punto di non ritorno, sorpresi da un terribile segreto alla base dei folli comportamenti dell’omicida. Come Tange, anche il resto del cast maschile fornisce una prova – volutamente – “outré”, che rincara il senso di bizzarro con cui i due registi hanno ammantato la loro pellicola; più tra le righe, invece, è il comparto femminile, in cui tutte le protagoniste – dalle più giovani a quelle più anziane – lasciano emergere un fascino sensuale di grande carica erotica e perversa, creando perfette maschere di quel sottogenere – “eros/thanatos” – con cui buona parte del giallo anni ’70 (e non) ha efficacemente flirtato (si pensi a Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave, 1972 sempre del Carnimeo, o La notte che Evelyn uscì dalla tomba, 1971 ancora di Emilio Miraglia), e imprimendo a lungo immagini perturbanti nella memoria dello spettatore. Sommando i livelli d’eccellenza raggiunti nella composizione visiva con quelli decisamente fumosi di una trama serpentina e nebulosa, rimane comunque una notevole esperienza cinematografica che, ovviamente, per la sua stessa costruzione, non potrà soddisfare i palati più grossi, ma fornirà a quelli più fini maggiori soddisfazioni in rapporto alla somma degli elementi difettivi.
(1) = Rosemary’s Baby, 1968; Le locataire / L’inquilino del terzo piano, 1976