Alla ricerca dell’ispirazione, uno scrittore si ritira in una grande villa isolata nel nulla, in compagnia solo della sua ben più giovane compagna. I primi elementi di disturbo sono offerti dal sopraggiungere di un medico e della sua famiglia disfunzionale. Quando, per la felicità e la soddisfazione della donna, sembrano essersi liberati di loro – con il relativo sblocco della creatività dell’artista – ecco arrivare, in un grottesco crescendo di insubordinazione e distruzione, l’agente dello scrittore, un gruppo di accaniti fan e un profluvio di personaggi stolti, cattivi, ignoranti e idioti che mettono a soqquadro l’enorme casa – apparentemente infinita – e le vite della coppia e chiunque altro vi si trovi all’interno. Nel frattempo la donna partorisce un figlio destinato a un tragico rituale che sarà l’innesco di una devastante esplosione conclusiva, riportando ogni cosa al principio, in una ciclicità apparentemente senza fine.
Aronofsky (l’ottimo Black Swan / Il cigno nero, 2010) costruisce una metafora – fin troppo didascalica – che analizza le dinamiche tra Creatore, Creato e Umanità – ma, in fondo, in seconda battuta, anche sul rapporto tra l’Artista, la sua Opera, l’Ispirazione e i suoi Fruitori – che preme il pedale sul grottesco e un forte pessimismo, dal quale non sono esenti sottolineature – giustificate – fortemente misantropiche. La critica del regista/sceneggiatore centra appieno il bersaglio nell’indicare l’ignoranza, la grossolanità, l’invidia e l’avidità egoistica del consorzio umano, proteso a sfruttare ogni possibile elemento a sua disposizione, indipendentemente che appartenga a lui o a qualcun altro, pur di alimentare il proprio tornaconto, a partire dalla manipolazione delle masse – ben esemplificato dalle azioni dell’editrice – in un ragionamento che provoca però anche un indebolimento della metafora: l’evidente contestazione del clericalismo (come sosteneva Giordano Bruno indicando nella politica e nella religione due meccanismi creati per il governo delle masse) rimarca il paradosso delle parabole bibliche alla base del copione.
Alla funzionalità dei due ottimi – soprattutto nella scelta del casting – protagonisti – Jennifer Lawrence (The Hunger Games, 2012 di Gary Ross e i suoi seguiti The Hunger Games: Catching Fire / Hunger games – La ragazza di fuoco, 2013 e The Hunger Games: Mockinjay / Hunger games – Il canto della rivolta, 2014/5 entrambi diretti da Francis Lawrence) e Javier Bardem (Perdita Durango, 1997 di Alex De La Iglesia) – si aggiungono sicuramente le notevoli prove di Ed Harris (Needful Things / Cose preziose, 1997 di Fraser C. Heston) e Michelle Pfeiffer (What Lies Beneath / Le verità nascoste, 2000 di Robert Zemeckis), perfetti rappresentanti e prototipi (Adamo ed Eva) di un’umanità invadente quanto autodistruttiva per difetto di intelletto.
Tutt’intorno ai personaggi, schiacciando ogni merito interpretativo e mimetico – in un contesto benissimo congegnato, ma con concessioni a uno schematismo fin troppo elementare nel racconto – è un impianto visivo di primissimo ordine, dalla fotografia di Matthew Libatique (Gothika, 2003 di Matthieu Kassovitz) alle scenografie di Philip Messina (Solaris, 2002 di Steven Soderbergh) che fanno della casa un essere vivente e ben identificano la sua immanenza di personaggio principale, rappresentazione di un bellissimo pianeta offerto al devasto di un’incosciente umanità (e di un’entità divina ancor più incosciente nella sua assurda ingenuità, un concetto ossimorico che finisce per diventare il principale difetto del film).