Hutter, per ordine del suo capo, Knock, deve recarsi in Transilvania per trattare l’acquisto di una dimora nella loro città, Brema, da parte di un nobile locale, tale Orlok. Salutata la moglie, l’uomo parte e, verso la fine del viaggio, raggiunge una taverna dove si ferma a dormire. Nella stanza vi trova un tomo che parla di vampiri, e Hutter ne deride i contenuti, convinto che si tratti di superstizione. Il giorno dopo raggiunge finalmente il castello dell’acquirente: è un luogo spettrale e spoglio, nel quale la sagoma terrificante del padrone di casa si staglia come un incubo. Durante la cena, Hutter si taglia e Orlok cerca di suggerne le stille di sangue che fuoriescono dalla ferita, così torna con la mente al libricino sui non-morti e quella sera lo riprende in mano per farne una lettura più seria. Mentre Knock si comporta in maniera folle e viene per questo rinchiuso in manicomio, Helen, la moglie di Hutter, accusa crisi di sonnambulismo, durante le quali fa spaventosi incubi sul marito e il suo oscuro ospite. L’indomani, Hutter scopre Orlok mentre prepara un carro pieno di bare e si richiude in una di queste: il carro parte senza guida, e lo conduce alla Demeter, la nave che lo condurrà fino a Brema. A Hutter non resta che rientrare a casa. Mentre egli si trova in viaggio, la città viene sconvolta da una furiosa pestilenza; e il vampiro, che si è stabilito in una casa abbandonata accanto alla sua, passa le notti a spiare la sua giovine sposa. Una volta rientrato a casa, Hutter racconta a sua moglie la sua disavventura e le mostra il libro, nel quale si cela l’unica soluzione possibile per liberarsi dell’essere maligno. La donna si presta ad attirare nella trappola il vampiro, ma soccomberà anche lei.
L’ottimo Friedrich Wilhelm Murnau (Faust, 1926) traduce in immagini il celeberrimo romanzo di Bram Stoker Dracula, dando vita a un assoluto capolavoro. Rinunciando parzialmente al classico “decor” espressionistico del cinema tedesco del periodo, Murnau immerge la vicenda su un estraniante realismo – scegliendo delle “location” peculiari e suggestive, affidandosi a un linguaggio cinematografico particolarmente dinamico (soprattutto un complesso montaggio alternato nel quale segue in parallelo le vicende dei suoi personaggi), e facendo largo uso di filtri cromatici – che toglie allo spettatore ogni possibile riparo fantasioso dietro il quale nascondersi e rendendo assai meno tangibili gli aspetti fantastici della vicenda, che rimangono limitati al personaggio di Orlok, al contrario sovente inquadrato in un disegno espressionistico ottenuto con notevoli e inquietanti giochi di luce e ombre.
Seguendo questo criterio, il regista tedesco sceglie un attore, a suo dire bruttissimo, per limitare le necessità di trucco: ne risulta una scelta vincente, al punto che Max Schreck (Ramper, der Tiermensch, 1927 di Max Reichmann), l’incredibile interprete di Nosferatu/Orlock, diventa un’autentica icona cinematografica. Il suo aspetto scarno e sgraziato, il volto che sembra un ritratto della Malizia e della Laidezza e i suoi artigli oblunghi, pur comparendo in scena per un tempo limitato si fissano in maniera indelebile nella mente dello spettatore e nella sua fantasia, dispiegando un senso di minaccia e d’insidia che mai più in seguito – nemmeno nel ritratto offerto da Christopher Lee; e ancora meno in quello di Bela Lugosi (e con un Klaus Kinksi, protagonista del remake herzoghiano, che ricorda più un nobile decadente e decaduto che una minacciosa creatura della notte e del male) – verrà raggiunto nel cinematografo.
Sebbene oscurati da questa incombente presenza, i due co-protagonisti si dimostrano comunque tanto bravi da non riuscire oppressi dall’imponenza scenica di Schreck: Gustav von Wangenheim (Frau im Mond / Una donna sulla Luna, 1929 di Fritz Lang) è un ottimo ingenuo Hutter, capace di inserire la giusta dose di autoironia per rendere umanamente credibile e piacevole il suo personaggio; mentre Greta Schröder (Der Golem, wie er in die Welt kam, 1920 di Carl Boese e Paul Wegener) è una bellissima Helen, il cui volto luminoso e immensi occhi sottolineano quel carattere d’innocenza che il suo personaggio deve possedere per aver ragione del vampiro. Eccellente anche la prova di Alexander Granach (Schatten – Eine nächtliche Halluzination / Ombre ammonitrici, 1923 di Arthur Robison) nel Renfield di turno.
Con il suo aspetto visivo così “semplice”, così “normale” finisce per essere una delle pellicole più spaventose di sempre, e basti dire che l’eccesso di orrore è valso al film il veto censorio in Svezia fino al 1972. Non si tratta certo di un “horror” epidermico o viscerale, ma possiede un più insinuante senso di minaccia e di timore, una sensazione disagiante e tutt’altro che catartica che, tolto David Cronenberg, il cinema orientale (Imprint di Takashi Miike) e qualche raro “capitano coraggioso” (vedasi Martyrs, 2008 di Pascal Laugier) non ha mai bazzicato il cinema “di paura”, dove in un modo o nell’altro la retribuzione dev’essere presente. E sia la figura del vampiro – apportatore di ogni male (la pestilenza che lo segue come fosse la sua ombra attraverso il suo trasferimento) – che il finale privo di redenzione (ma estremamente realistico, se vogliamo analizzare con logica la pellicola) non offrono di certo alcun “piacere” allo spettatore, togliendoli, da un lato, il lieto fine consolatorio e, dall’altro, quello negativo, costruito ad arte per fornire al fruitore un sfogo più viscerale della propria cattiveria. Grazie a questo suo estremo naturalismo – non solo nelle magnifiche soluzioni visive (le scene con l’arrivo di Hutter al castello accompagnate dall’inquietante presenza di Orlok; o ancora la panoramica marina sul Demeter oramai alla deriva; i famosissimi giochi di ombre di Orlok, così carichi di profonda minaccia; la spiaggia adornata di crocifissi in cui Helen legge la lettera spedita dal suo amato consorte; e moltissime altre), ma anche nei fatti narrativi di un’ottima sceneggiatura firmata da Henrick Galeen (poi regista dell’ottimo Alraune / La mandragora, 1928) ci troviamo di fronte a un assoluto capolavoro in grado di togliere il fiato, oltre che il sonno. E dire che, dopo una causa intentata dalla vedova di Stoker – visto che la riduzione da Dracula era stata fatta senza chiedere alcun permesso – il giudice aveva condannato al rogo tutte le pizze e i negativi!
Da segnalare anche che la morte di un vampiro dovuta ai raggi solari è un invenzione scenica propria di questa pellicola.
Il già citato rifacimento di Werner Herzog nel 1979, con Klaus Kinski nel ruolo che fu di Schreck e una stupenda Isabelle Adjani in quello della Schröder offre una visione maggiormente calligrafica, ma non per questo meno efficace, ergendosi tra i migliori horror degli anni ‘70.