Mettiamo subito le cose in chiaro: siamo tutti consapevoli che quella del tour celebrativo di Psychocandy possa risultare una mossa strategica, quel tipo di operazione che oggigiorno permette a molti artisti di cavalcare un rinnovato interesse da parte del pubblico e un successo spesso più grande e di gran lunga più fortunato di quello ricevuto ai tempi del debutto. Non è un mistero che anniversari simili favoriscano tanto l’hype quanto il guadagno e, nel caso dei Jesus & Mary Chain, una mano l’ha sicuramente data il revival del variopinto e sterminato universo post-punk congiunto sempre più spesso a un certo tipo di shoegazing, genere del quale la band scozzese resta indiscussa madrina.
Cos’è, dunque, che rende il concerto di Ferrara così denso di aspettative e, se vogliamo, diverso dagli altri? In questa occasione tutto, ma proprio tutto, ruota attorno al fattore emozionale: sono circa venticinque anni che i fratelli Reid non calcano suolo italiano e la prospettiva di vederli dal vivo per riproporre un disco così importante, quella preziosissima nota acida e dissonante in mezzo al mare di glitter, synth e plastica targato anni ’80, fa gola ad appassionati e curiosi e non seda le aspettative di chi con Psychocandy ci è cresciuto, perdendosi in quel pop malinconico e lisergico che affoga e riemerge costantemente da violentissimi feedback.
È quindi con un’ingente dose di eccitazione che Ferrara saluta Jim e William Reid, accompagnati da Phil King al basso, Mark Crozer alla chitarra e Brian Young alla batteria. Non è piena come ci si aspettava, Piazza Castello, e un po’ dispiace, ma luglio inoltrato deve aver scoraggiato una discreta fetta di pubblico che, con tutta probabilità, ha preferito mete meno aride al ritorno in pompa magna del gruppo di East Kilbride. Se il caldo opprimente sembra prediligere un’atmosfera più pacata e rilassante, i Jesus & Mary Chain, al contrario, sentono il bisogno di infiammare ulteriormente la platea proponendo fin da subito alcuni dei brani più amati dagli aficionados. April Skies e Head On favoriscono il sing-along e qualche temerario produce anche un pogo sfrenato, sfruttando oltre misura l’energia che vibra sul palco. Algidi esattamente come ieri, Jim e William Reid eseguono con disincanto da manuale ogni canzone, l’uno mormorando e giocando distrattamente con l’asta del microfono, l’altro concentrandosi maniacalmente sulla propria chitarra, tanto da non lanciare una sola occhiata al pubblico entusiasta, neanche di sfuggita. Se Blues from a Gun prosegue il discorso rock di Automatic, classe 1989, Some Candy Talking, Psychocandy e Up Too High derivano verso flussi più rarefatti e psichedelici, dilatando notevolmente l’atmosfera.
È un sollievo vedere che il tempo abbia preservato intatto il candore e le imperfezioni che hanno reso grandi i Jesus & Mary Chain: nonostante la formazione si sia arricchita di nuovi elementi, ogni strumento suona esattamente come ci si aspetta, seppur con volumi maggiormente contenuti, e il fattore emozionale di cui sopra impedisce di soffermarsi sulle false partenze o su qualche imprecisione di troppo da parte della sezione ritmica. Si ondeggia nostro malgrado, come ipnotizzati dall’incursione nelle “Darklands” di Nine Million Rainy Days, che ci regala attimi di gelo -purtroppo soltanto ideale- prima di una violenta e acidissima Reverence. È Upside Down, il primo singolo mai rilasciato dalla compagine scozzese, a sigillare la degna fine del primo set e a decretare l’inizio della parte più attesa del concerto, la “caramella” per cui tutto il pubblico scalpita, a ragion veduta.
L’inconfondibile cassa di Just Like Honey sancisce forse il momento più commovente della serata: in pochi secondi si stabilisce un’intima e delicatissima sintonia tra Jim Reid e la piazza, che intona all’unisono ogni parola, trasformando uno dei brani più sognanti e senza dubbio più celebri dei Jesus & Mary Chain in un rispettosissimo boato. The Living End ristabilisce l’asprezza noise dell’album ma, ahimè, a un livello più pulito e a volumi di gran lunga meno elevati e avvolgenti di come erano stati pensati in origine. Nonostante questo aspetto mortifichi un po’ la violenza dell’impatto (oltre a quasi vanificare l’uso di amplificatori e testate “Orange”), i Jesus & Mary Chain riescono con assoluta efficacia, semplicemente e senza troppi sofismi, a emozionare ogni singolo astante. Sembra di aver ritrovato un vecchio amico, col quale cantare a squarciagola ogni singolo brano, facendo un vertiginoso slalom tra episodi spigolosi ed energici (In a Hole, Never Understand) e altri più contenuti e melanconici (The Hardest Walk, Cut Dead), fino ad arrivare alla chiusura ossessiva di It’s So Hard che, questa sera, suona come un monito solenne (“So it seems all our life is dreams”).
L’atteso ritorno dei Jesus & Mary Chain non è stato impeccabile: gli errori, uniti al disincanto di cui si fanno portavoce, hanno palesato una piuttosto incerta coesione della band, mentre i volumi non hanno reso completa giustizia ai suoni nevrotici di Psychocandy. Nonostante ciò, si abbandona la piazza soddisfatti, contenti di aver potuto vivere e non soltanto immaginare il concerto di uno dei gruppi più importanti che gli anni ’80 abbiano mai tirato fuori dal loro magico cilindro. Nessuno è scontento, deluso, amareggiato. Colpa del fattore emozionale, sempre lui. Eppure, quando un gruppo che potrebbe vivere di rendita, tra anniversari e celebrazioni, riesce a toccare le corde giuste, a far leva sulla sensibilità del pubblico mantenendo salda e visibile la propria personalità, significa che ha ancora molto da insegnare. Questa sera i Jesus & Mary Chain ci hanno emozionati… e tanto basta. Tornando a casa le critiche sembrano sempre più piccole, i sorrisi sempre più grandi.
Setlist:
April Skies
Head On
Blues from a Gun
Some Candy Talking
Psychocandy
Up Too High
Nine Million Rainy Days
Reverence
Upside Down
Just Like Honey
The Living End
Taste the Floor
The Hardest Walk
Cut Dead
In a Hole
Taste of Cindy
Never Understand
Inside Me
Sowing Seeds
My Little Underground
You Trip Me Up
Something’s Wrong
It’s So Hard