“Lode a Mishima e a …”
Quante volte abbiamo cantato questo famoso verso dei CCCP? Innumerevoli.
E furono i CCCP tantissimi anni fa a spalancarmi le porte per la conoscenza di uno dei più grandi scrittori del ‘900.
Ho detto scrittore perché per questo, in larga parte, viene conosciuto Yukio Mishima, nome d’arte di Kimitake Hiraoka.
Ma Mishima non è un semplice scrittore. Lo è solo per chi vive di compartimenti stagni, per chi ha una visione edulcorata dell’arte e per chi vuole relegare in un angolo un percorso artistico multidisciplinare, poliedrico e complesso.
Perché tutta la vita dell’autore giapponese è un tendere alla perfezione ed alla completezza. Un anelare alla perfezione ed alla bellezza, il cercare di congiungere in un unico punto, elevato e splendente la sintesi tra “la penna e la spada”.
In un equilibrio fragile ma accecante come appunto i fiori di ciliegio all’apice della fioritura.
Mishima fu scrittore, poeta, drammaturgo, attore ma fu sempre un uomo coerente con la sua costante ricerca in ogni ambito in cui si cimentò. Un uomo totalizzante che lo portò anno dopo anno, fino alla parte finale della sua esistenza terrena, alla continua riscoperta delle proprie radici, in un percorso a ritroso, un risalire il fiume della tradizione del Giappone oltraggiato e mortificato. Un Giappone svilito nella sua intimità dalle pesanti condizioni imposte dai “liberatori”.
Il Giappone, forse l’ultimo baluardo contro la modernità, ridotto a “mera espressione geografica”, oltraggiato a dismisura. Un’antica nazione, una società organica, che basava la propria esistenza sul culto di un Imperatore come rappresentazione pura della Divinità, ridotta ad un cumulo di macerie spirituali.
Fu questo l’aspetto che bisogna tener conto accostandosi a Mishima, uno scrittore che sfiorò tre volte il premio Nobel per la letteratura, a 50 anni dalla sua eroica morte.
L’aspetto che deve risaltare al di la’ dei suoi innumerevoli capolavori, dei suoi tanti romanzi di successo che citare sarebbe solo esercizio pedante, è principalmente la sua storia esistenziale, tesa in modo ossessivo, a forgiare uno spirito eroico ammantato da una sensibilità fuori dal comune.
Chi si accosta a Mishima senza prendere in considerazione lo scambio continuo che c’è tra la sua vita e le caratteristiche dei suoi personaggi sbaglia. Si pone già in una posizione errata in partenza.
Semplicemente perché tutto l’universo di Mishima si pone in una prospettiva ideale, complessa che però fonda le sue radici sulla sua stessa vita quotidiana. Vita che volle e fece diventare un capolavoro.
E’ una prospettiva sbagliata dicevo perché, il commentatore o il lettore occidentale, ormai lontano da analisi di matrice verticale, così facendo non riuscirebbe a cogliere compiutamente l’appello dell’opera mishimiana.
L’autore giapponese era un anti moderno, come lo fu Drieu La Rochelle, come lo fu Venner che condividono con lui lo stesso sentiero e la stessa tragica ma potente culminazione.
La culminazione in un idealismo eroico che trasformò la propria vita in una poesia, in un esempio accecante, in una stella polare, in un richiamo ad un substrato da risvegliare, rivitalizzare, richiamare in vita.
Disprezzando il presente (famosa la sua frase: “in nome del passato, abbasso il presente”) amando la perfezione fisica come emblema di quell’equilibrio con lo spirito, il sacrifico e l’abnegazione (il praticare il Kendo), la disciplina (la costituzione dell’Associazione dello Scudo) per una restaurazione dell’uomo integrale che deve ricongiungersi ai e nei valori originari.
Un mito impolitico si potrà obiettare ma non è questo il punto.
Il punto è essere capaci, per chi ne è in grado, di inseguire la Bellezza e la Perfezione in un mondo che preferisce preservare la carne e non curare lo spirito.
Mishima può essere capito veramente solo da chi è avversario di questa epoca, di chi è davvero anti moderno e non da chi cerca solo un altro bel romanzo da leggere.
Da chi non crede ai miti fallaci e fumosi della democrazia, alle sue prospettive piatte e banali, dalla svilente corsa al successo, dalla fangosa realtà del culto dell’apparenza e dall’idolatria dei feticci di plastica.
Andando oltre, cercando la Morte, confrontandosi con essa per far cadere tutte le maschere che l’ipocrisia borghese impone.
Per quel che mi riguarda, se proprio dovessi consigliare almeno dei romanzi di Mishima da leggere, senza dubbio consiglierei i quattro libri che compongo la tetralogia de “Il mare della fertilità”: “Neve di Primavera”, “Cavalli in fuga”, “Il tempio dell’alba” e “La decomposizione dell’angelo”. Quattro libri, composti nella parte finale della sua vita, con trame diverse ma unite in continuum temporale che unisce alcune situazioni ed uno dei protagonisti. Quattro libri che si inseriscono in una storia vasta e complessa che altro non è che una metafora ficcante ed esauriente del senso della vita.
Non a caso, l’ultimo dei quattro, appunto “La decomposizione dell’angelo”, venne completato la notte del 24 novembre del 1970.
Poco prima, quella stessa sera, Yukio Mishima consumò una cena di addio insieme a quattro membri del Tatenokai (appunto la milizia l’Associazione dello Scudo) con cui il giorno seguente avrebbe portato a termine il suo eclatante suicidio pubblico. Gli uomini mangiarono al Suegen, un piccolo ristorante del quartiere di Shimbashi, Tokyo.
Poi Mishima andò a trovare i suoi genitori.
Fu una visita breve, apparentemente consueta e ordinaria. Rientrato a casa, raggiunse il suo studio e, come faceva abitualmente, cominciò a lavorare nel pieno della notte.
Appunto firmò l’ultima versione del quarto volume della tetralogia del “Mare della fertilità”, apponendovi la data del 25 novembre 1970. Scrisse poi una breve frase su un foglio di carta, lasciato sulla scrivania: “La vita umana è così breve e io vorrei vivere per sempre”.
Ebbe così inizio l’ultima notte del più grande scrittore giapponese (e non solo) del Novecento, dell’uomo che poche ore dopo sarebbe diventato definitivamente l’ultimo, autentico samurai.
L’uomo che divenne esattamente come Isao, il protagonista di “Cavalli in fuga” che nel togliersi egli stesso la vita, con l’antico rituale, sentì, nel momento estremo, il Sole che gli esplodeva dentro, dietro le sue pupille. Perché lui stesso era diventato pura luce.
Il momento in cui l’uomo Mishima divenne immortale, facendo diventare la sua vita un capolavoro senza pari.
“Da qualche parte deve esistere un principio più elevato che riconcili l’Arte e la Vita. Poi ho intuito che quel principio era la Morte”.