Il 7 ottobre del 1894 moriva, in circostanze mai del tutto chiarite, uno dei più grandi scrittori dell’epoca moderna. Il padre indiscusso della letteratura gotica, colui il quale strutturò ed incanalò in modo uniforme istanze romantiche e macabre già presenti nella tradizione europea.
Lo fece però lui che europeo non era. Sto parlando di Edgar Allan Poe, il maestro indiscusso di un cosiddetto genere letterario a cui chiunque si sia avvicinato, ha dovuto pagare dazio e riconoscenza.
Poe il maledetto, il cantore delle tenebre umane, del macabro, della poesia notturna, degli incubi.
Poe lo scrittore che ebbe grazie all’opera divulgativa di Baudelaire (definendolo “congetturale e probabilistico”) la giusta eco anche in Europa.
Poe lo scrittore incontrato in età adolescenziale. D’altronde per chi come me, ascoltava certa “musica” e seguiva certi richiami innati l’incontro era inevitabile.
Perché Poe recava in sé la tenebra poiché alla fine era lui stesso le tenebre. Il cesellatore di un nero che dominava il cuore e l’anima. Avrebbe potuto lasciarsi invadere passivamente da questo nero: ma con un coraggio che non abbandonò mai seppe osservarle, queste tenebre, le rappresentò e le descrisse.
Con i suoi sensi morbosamente sottili e acuti sentì gli strepiti dell’Inferno, il battito di un cuore morto, i nervi sovreccitati, dilatati, isterici. Uno sguardo prolungato all’infinito fece in modo di dilatare queste sensazioni nei suoi scritti. Strappando la forza dai sogni della notte, dai sogni a occhi aperti, dagli incubi della follia e dell’alcool, dal delirio della morfina. Sapeva che la via dei sensi e dei nervi, accortamente sfruttata, ci conduce verso ogni altrove, verso ogni mistero, enigma o nodo metafisico.
Possedeva un’intelligenza prodigiosa: insieme esatta e inafferrabile, architettonica e paradossale.
Le poche righe che ne “Il gatto nero” scrisse sul peccato e sul desiderio dell’anima di violare la legge, di torturare sé stessa, di violare l’amore, di porsi al di fuori della pietà di Dio, sono degne del più appassionato teologo e moralista, che abbia mai curvato lo sguardo sull’abisso del cuore umano.
Poe capì che dall’incontro tra la tenebra e il foglio di giornale poteva nascere una nuova forma letteraria (il racconto) che dava vita ad immagini dell’indefinito e dell’infinito, che gli sembravano costituire l’unica ragione della sua vita.
Analizzando nei suoi racconti la presenza delle figure dell’inconscio, che vengono imperfettamente alla luce, ancora bagnate dall’oscurità dalla quale escono, molti ne hanno trascurano la complessità che questi impulsi assumono nel sistema di Poe. Non indagando a fondo nelle trame necrofile di Berenice e Ligeia, trascurando la grandiosa passione metafisica che spinse lo scrittore americano oltre i limiti della percezione e della vita. Alla fine il suo scrivere era alla base di molti autori suoi contemporanei. Il voler sapere cosa esiste di là, voler scoprire se il nostro limitato approccio sensoriale che ci sorregge ogni giorno può sorreggerci anche dopo la morte.
Una volontà di indagine portata avanti usando archetipi della mente: come quelli del vortice, del pozzo, del doppio, del mortale pendolo del tempo, della cantina o della bara chiusa, dalla quale, forse, non potremo mai più uscire. Dovunque questi impulsi affondino, da qualunque luogo sgorghino alla luce con indemoniata violenza, si spostano tra le pareti chiuse del cranio e riescono ad uscire solo ponendosi in modo disincantato ed arrendevole verso il senso del mistero. Dell’insondabile e del non conosciuto.
Un po’ come quel pischello che durante una copiosa nevicata notturna si fece rapire dalla lettura de “La caduta della casa Usher”…