Livide luci; un fabbricato industriale abbandonato; un viottolo dismesso; una bambina che corre lanciando urla selvagge; il viso tumefatto; il corpo coperto da ferite e ecchimosi. È la scena d’apertura di questo viaggio nel cuore di tenebra di un’umanità deviata e deviante. Una scena che pone già le basi umorali e tecniche di una questa che, s’intuisce, sarà senza speranze.
La trama si divincola sul percorso di un violento thriller al sangue per tutta la prima parte, sfiorando (o, più probabilmente) rileggendo certe tematiche che potevano in qualche modo apparire in The Brood / Brood – La covata malefica, 1978 di David Cronenberg. Il ritmo è teso, la tensione snervante e l’atmosfera più che crepuscolare. Poi, con un improvviso e perfettamente centrato, colpo di coda si scivola nella seconda parte – con tematiche in parte già affrontate da Hostel, 2005 di Eli Roth; ma che qui hanno una profondità e una veste realizzativa che rendono il film prodotto da Tarantino una carnevalata degna di Disneyland – e d’un tratto il pavimento sotto lo spettatore viene a mancare.
La vicenda lascia i percorsi più assimilabili e catartici del genere, per tuffarsi in un pozzo di quelli che Clive Barker ogni tanto riesce a scoperchiare in certi suoi racconti – non ultimo The Hellbound Heart: da cui lo stesso Barker ha tratto Hellraiser, 1987. Però, a differenza dell’artista britannico, Laugier si guarda bene dal venir meno alla plausibilità del suo racconto; costringendo – anche attraverso un’ultima mezz’ora di assoluta implacabilità – lo spettatore a fare i conti con sé stesso e le sue paure. Senza pietà, l’ex assistente di Christophe Gans, ci trascina in un universo di sofferenza e dolore inimmaginabili, incurante di qualunque lamentela, di qualsivoglia ammorbidimento. Inoltre, per chi sopravvive a questi ultimi 30 minuti – davvero tra i più duri mai visti al cinema – viene omaggiato di uno dei finali più agghiaccianti che sia mai stato immaginato.
Se è vero che l’equilibrio di Laugier (che dedica il suo film a Dario Argento, che egli venera come fosse una “rock-star”) non viene mai a mancare, e che il suo script è davvero genialmente concepito, va detto che il film non sarebbe potuto essere tale senza almeno due elementi fondamentali: il trucco di Benoît Lestang (partito dal cinema di Jean Rollin è arrivato a produzioni di spessore come Le pacte des loups / Il patto dei lupi, 2001 di Christophe Gans), sconvolgente nel suo impatto; e, soprattutto, la prova di grande intensità delle sue due giovani protagoniste – Morjana Alaoui (Zimmer, 2009 di Michael Dreher) e Mylène Jampanoï (Les rivières pourpres II – Les anges de l’apocalypse / I fiumi di porpora II – Gli angeli dell’Apocalisse, 2004 di Olivier Dahan); che in un pregevole gioco citatorio assume di molto le sembianze di Maria Falconetti nel capolavoro di Dreyer La passion de Jeanne D’Arc, 1928. In merito a quest’ultima; ben difficile risulterà dimenticarne lo sguardo perso in un’altra dimensione dei fotogrammi finali: occhi che vi mormorano: “Osa!… Osa!”.