“Le confessioni di una maschera”
Il 1989 è un anno importante, basilare per le sorti dell’Europa, un anno epocale per il destino di tutto il mondo. E’ l’anno del crollo del Muro di Berlino, un anno di cambiamenti e di sconvolgimenti geopolitici che disegnò un nuovo scenario.
I cantori dell’Apocalisse che risiedevano in Inghilterra lo avevano anticipato con un disco rimasto nella storia che fu “The Wall of Sacrifice” che chiudeva un cerchio, un percorso.
Il percorso era quello che Douglas P., dopo l’abbandono dapprima di Tony Wakeford e successivamente di Patrick Leagas, aveva iniziato in modo solitario, quasi come un’aristocratica missione, nel 1986.
Gli album pilastro\manifesto delle sue visioni e delle sue ossessioni erano “The World that Summer” e “Brown Book”. Accompagnato da sodali amici la creatura Death in June seppe irrompere nel panorama musicale degli anni ’80 con una disarmante carica di disperata bellezza.
Era l’afflato eroico e decadente quello che affiorava, una ricerca costante di armonia in un mondo che ne era sprovvisto. La restaurazione di un sentire “altro” ed “alto”.
I due colossi musicali sopra menzionati imposero il nome della “morte in giugno” come i migliori cantori di questa testimonianza.
Due vinili (editi fino ad allora solo in questo formato) di straordinaria bellezza che appunto nel 1989 (pochi anni dopo la loro realizzazione) vennero “ripescati” per tenere a battesimo, la prima compilation dei Death in June composta solo e soltanto nel formato digitale.
“Gli anni del raccolto” fu un cd che permise a chi non li conoscesse, di poter avere una degna introduzione ed utile approfondimento delle loro gesta.
Ed il titolo non fu scelto a caso, ma descriveva perfettamente la vena creativa di un seme piantato poco tempo prima ma che aveva iniziato già a germogliare.
Fu un amico di Douglas che gli suggerì, durante una passeggiata in campagna, che fosse venuto il momento di raccogliere quel che era stato seminato.
La raccolta fu un degno florilegio che venne presentato nel giugno (nulla avviene per caso) di quell’anno. Un florilegio di perle, di brani che non erano brani ma poetiche impreziosite da un lirismo colto pieno di rimandi esoterici e letterari.
Riferimenti agli anni del passato non cancellato, ad un’estetica delle bellezza, al gusto del sacrificio e al tramonto dell’Occidente. Con un occhio alle storie di amore e tradimento di Jean Genet o della ricerca della bellezza e dell’armonia di Mishima. In un miscuglio di battiti di drum machine, chitarre acustiche, suoni di tromba, sperimentazioni elettroniche.
In “The Corn Years” c’era tutto quello che occorreva a chi si sentiva “nato postumo”.
La ricerca dell’amore puro, della morte come atto di conciliazione con la bellezza, il sangue come sacrificio necessario, i silenzi della disperazione ed i crepuscoli interiori, gli abissi senza fine di un mondo alla rovescia, gli ideali traditi, le speranze mai compiute e le memorie da coltivare.
Di fianco a Douglas anche David Tibet, Andrea James, Rose McDowall, John Balance.
Attori importanti per mettere in scena questo codice etico e poetico mostrato con coraggio e perseveranza.
Fu il breve intro di “Heilige” a far partire le danze prima di dare spazio all’omaggio di Mishima in “Torture by roses”, all’intreccio tra il ricordo e la fedeltà di “Zimmerit”, alla denuncia di una società edonistica e materialista di “We are the lust“, alla contemplazione del dolore di “To Drown a Rose”, al rito iniziatico di “Punishment Initiation”, ai drammi dell’infanzia di “Rocking Horse Night”, alla metafora dell’eterno ritorno di “Hail the White Grain”, al significato del sacrifico insito in “Blood of Winter”, alla ricerca di una speranza perduta di “The Fog of the world” che faceva il paio con le mirabili visioni catastrofiche di “Europa the gates of Heaven”.
E se la drammatica dicotomia tra l’amore e morte fa da sottofondo al tema di “Come before christ and murder love” è nella versioni ri-registrate di alcuni pezzi che i fortunati dei tempi poterono cogliere alcuni mutamenti accorsi nel tempo. La nuova versione di “Break the Black Ice” con Rose alla voce faceva diventare una ballata nera ancora più sinistra, donando ad un malessere congenito una vena soffice che rendeva più dolce un grido di acuta disperazione. “Non mine not yours” è l’epoca in cui si è costretti a vivere.
“Love murder” restava quasi inalterata nella sua tragica e flebile supplica minimale mentre le nuove versioni di “Rule Again”, senza la sezione ritmica che ne accresceva il suo lirismo magico e quella ancora più inquietante di “Fields of Rape” ponevano il sigillo ad una raccolta che oggi, dopo tanti anni riceve una meritata ristampa con una nuova veste grafica ed un 45 giri allegato che racchiude tre nuove versioni di “Runes and Men, “Break the Black Ice” e “The Fog of the World”.
Una ristampa utile non solo a chi se la fosse persa per strada ma anche a chi, da collezionista pruriginoso, ha voglia di mettere mano su un feticcio dalla veste grafica eccezionale.
Un nuovo appuntamento per chi segue la storia dei Death in June da sempre (e non solo).
Per rinnovare un ascolto sempre attuale e consacrato all’esaltazione dell’estetica, alla forza e alla purezza degli ideali ed alla disperata denuncia della declino.
“The lie across the sea, my hate is love to me”
ACQUISTA IL DISCO QUI
https://www.steelwork.fr/death-in-june/2709-death-in-june-the-corn-years-plus-cdblack-7-smr020.html