Realizzato sotto l’egida produttiva di Alex De La Iglesia (La comunidad / La comunidad – Intrigo all’ultimo piano, 2000) è sicuramente uno dei film più “weird” prodotti nel decennio, con una trama (dello stesso regista Eduardo Casanova) che mette al centro il confronto tra mostruosità esteriore e interiore, attraverso uno stuolo di personaggi fisicamente o psicologicamente o moralmente “freak”.
Sviluppando il lavoro di alcuni suoi cortometraggi (come il caustico e irriverente Eat My Shit, 2015, da cui prende il personaggio di Samantha, la ragazza con l’ano al posto della bocca), intreccia le storie di alcuni sfortunati personaggi, come Laura, una prostituta priva di occhi che indossa due diamanti in sostituzione quando si accompagna a un cliente; o Itziar, un’obesa ristoratrice sull’orlo della bancarotta; come un ragazzo convinto di essere una sirena, deciso a amputarsi le gambe che egli non sente come sue; o, ancora, una nana che, per professione, dà vita a un pupazzo, costretta dall’avidità del suo agente e dal cinismo di un dirigente televisivo a condizioni di lavoro disumano; come una donna, nata con una difformità del viso, concupita da un uomo attratto dalle malformazioni e da un compagno il cui volto è ridotto a un’unica cicatrice dopo essere sopravvissuto a un incendio. Tutti i personaggi sono alla ricerca di quella normalità che non può essere parte del loro mondo, ancorché, in una parte conclusiva un po’ troppo ottimistica – e con un tenue retrogusto non proprio accettabile di ipocrita ammorbidimento – ognuno di loro trova il modo di vedere materializzato il proprio obbiettivo.
Se ne ricava una sorta di puzzle grottesco, dove le tessere s’incastrano perfettamente grazie a un abile gioco di montaggio narrativo e filmico (Juanfer Andrés – co-regista con Esteban Roel, dell’horror Musarañas, 2014), che tende in qualche rara occasione a trascendere nel triviale, e, dopo una prima parte un po’ ambigua, abbandona ogni esagerata sgradevolezza e osserva con occhio affascinato e amorevole alla disumanità esteriore dei suoi personaggi, riservando un evidente sdegno per la moralità corrotta di quell’umanità apparentemente (perché senza difetti esteriori) sana, che per contrasto appare pessima e disgustosa. Una sottolineatura che già trapela del terribile prologo, che racconta senza alcun filtro l’ipocrisia e il cinismo dominanti nel consorzio umano.
Due fattori basilari consentono al film una riuscita altrimenti difficilmente raggiungibile, considerando la materia davvero scivolosa e colma di trappole in cui si avventura Casanova: a) un cast che, a dispetto delle difficoltà richieste dalla trama e dai loro personaggi, fornisce una prova collettiva davvero eccellente – su tutti brilla una notevole Macarena Gómez (Dagon / Dagon – La mutazione del male, 2001 di Stuart Gordon) che abilmente cesella un personaggio memorabile e di struggente tristezza – in grado di dare lo spessore necessario a dar loro vita e credibilità, compresi quelli più esagerati; e b) una splendida confezione ultralusso, frutto della collaborazione tra l’architetto Idoya Esteban (Extraterrestre, 2011 di Nacho Vigalondo) e il direttore della fotografia Nono Muñoz (Omnívoros, 2013 di Óscar Rojo), che conferisce un fascino visivo di notevole efficacia a una delle storie più ardue e intense di questo periodo.