Il progetto parallelo di Ash Lerczak alias Doc Horror, mente e chitarra di Zombina & The Skeletons, forse è nato solo per gioco e, come la maggior parte dei propositi partoriti senza pretese, ha ricevuto un consenso inaspettato grazie a Bandcamp e al passaparola degli appassionati. Intendiamoci, non stiamo certo parlando di un “successone”, ma di una forte approvazione da parte dei cultori della darkwave e del più “fumoso” genere goth. Phantomime, l’opera prima del duo di Liverpool, ha fatto il tutto esaurito sia della prima che della seconda stampa e ha conquistato lo zoccolo duro di una scena musicale che fa sempre nuovi adepti, forte di un revival che non accenna ancora a spegnersi.
La Danza è il secondo full-lenght di questa interessante realtà britannica e, rispetto a Phantomime, risulta un piccolo passo indietro a livello compositivo. Sia chiaro: sin dai primi vagiti, i Double Echo hanno fatto leva su quella sensazione di déjà vu che, inevitabilmente, scaturisce ascoltandoli, e se Phantomime giocava parecchio con l’obsolescenza delle soluzioni, La Danza non fa eccezione alcuna. Anzi, laddove Phantomime si snodava tra dinamiche prima serrate e poi lente e incisive, La Danza presenta ritmiche e percorsi estremamente dilatati, annegando tutti gli strumenti in una doppia dose di riverbero rispetto al lavoro precedente, tenendo fede al nome del gruppo e depauperando più che leggermente di impatto la drum machine. Le soluzioni post-punk, gli intrecci e le corse tra la chitarra e il basso che tanto ammiccavano ai primi Cure e a Siouxsie & The Banshees, vengono questa volta volutamente trascurati in favore di un effetto atmosferico, rarefatto e “antico”. È il caso di The Waiting Game, The Sentence e di Concrescence, dove i synth diventano protagonisti assoluti, a volte rimarcando la matrice onirica dei brani, altre volte accennando tentativi di recupero di un’elettronica plastica e minimale cara ai primissimi New Order. L’unico valore aggiunto alla poetica dei Double Echo, preservata e difesa da qualsiasi ammodernamento, è un’inedita voce femminile, che nulla addiziona al sound del gruppo, se non preziosi mutamenti capaci di rompere un’eventuale uniformità dovuta alla voce grave e monocorde di Ash e, nel caso di The Waiting Game e Lustless Silence, di restituire più che buone prove vocali dal sapore dream pop. Il disco, nell’insieme, amplifica il discorso lo-fi del suo predecessore, così come dell’EP e dei singoli pubblicati in precedenza, risultando compatto e intrigante, come dimostrano (I Used to Be) In Pictures, Distance o i già citati episodi dal retrogusto dream, ma, allo stesso tempo, si presenta un po’ scarico e debole di intuizioni (Statue, Concrescence).
Ingenuamente ci si sarebbe aspettati un’evoluzione, anche piccola, da parte dei Double Echo, se non fosse che la forza di questo gruppo coincida con quello che potrebbe facilmente essere considerato come il suo più grande limite: la “dichiarazione d’intenti” mai troppo celata, né nell’estetica né nelle trame delle composizioni. Come già accennato nell’incipit di questa riflessione, i Double Echo si rivolgono a un certo tipo di pubblico, senza pretesa di originalità e senza alcun desiderio di donare freschezza o attualità a una forma-canzone volutamente anacronistica. Anzi, l’impressione è che Ash Lerczak e Chris Luna facciano “quadrato” attorno alla propria creatura, difendendola ed escludendola da ogni minimo tentativo di rinnovamento o adeguamenti di sorta. Se Phantomime risultava un disco perfetto da saccheggiare in occasione di dj set a tema e un po’ nostalgici, ballabile e cupo all’occorrenza, La Danza diventa il sottofondo ideale per un goth party casalingo, completo di ragnatele finte e, magari, anche di una macchina del fumo. Un disco “di genere” per maniaci del genere.